Studio Legale Ollari
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Notizia 16/04/2024

Provvedimento illegittimo? Risarcimento dal Comune? Attenti alla prescrizione!






Pubblicato il 11/04/2024
N. 06976/2024 REG.PROV.COLL.
N. 03902/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Quater)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3902 del 2017, proposto da
Immobiliare Lorenz S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ciro Alessio Mauro, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Bruno Buozzi 87;
contro
Comune di Genzano di Roma, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Roberto Ollari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alfredo Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini, n. 30;
Risarcimento danni derivanti da illegittimo diniego variante a permesso a costruire giusta sentenza del Consiglio di Stato n. 290 del 28.01.2016


Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Genzano di Roma;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 febbraio 2024 il dott. Luigi Edoardo Fiorani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso notificato il 3 aprile 2017 e depositato il 2 maggio 2017, la società Immobiliare Lorenz ha agito per ottenere la condanna del Comune di Genzano di Roma al pagamento della somma di € 3.951.731,00 a titolo di risarcimento dei danni derivanti dal diniego a suo tempo opposto dal Comune resistente (in seguito annullato dal Consiglio di Stato con sentenza n. 290/2016 del 28 gennaio 2016), sulla domanda in variante all’originaria concessione edilizia presentata dalla dante causa della società ricorrente.
2. Riferisce la società ricorrente di aver acquistato, in data 14 novembre 2007, un fondo sito nel Comune di Genzano di Roma e di essere così subentrata nel permesso di costruire n. 18/2005 del 20 aprile 2005 per la realizzazione di due fabbricati, aventi destinazione d’uso commerciale e una cubatura complessiva di mc 4.366,38.
2.1. Rappresenta, quindi, la ricorrente di avere presentato, in data 4 aprile 2008, domanda di variante del permesso di costruire de quo, al fine di trasformare parte della superficie dell’edificio B (avente originaria destinazione d’uso commerciale e terziario, come prevista dal permesso di costruire n. 18/2005) in superficie a destinazione parzialmente residenziale, sul presupposto che ciò sarebbe stato consentito da una variante del P.R.G. approvata con Delibera di Giunta Regionale n. 615 del 2005.
2.2. Il Comune ha denegato tale variante, con provvedimento comunicato all’odierna ricorrente in data 1° dicembre 2008, preceduto da un’ordinanza di ingiunzione di sospensione dei lavori.
2.2.1. Sul versante penalistico, invece, il fabbricato per il quale era stata chiesta la variante risulta essere stato sottoposto a sequestro con provvedimento del 23 ottobre 2008.
2.3. Il diniego di variante e l’ordinanza di sospensione sono stati impugnati innanzi a questo T.A.R., che con sentenza n. 8155/2013 ha rigettato il ricorso: detta sentenza è stata riformata dal Consiglio di Stato con la richiamata sentenza n. 290/2016.
2.3.1. Il sequestro, invece, è venuto meno a seguito del dissequestro disposto con la sentenza di assoluzione del Tribunale di Velletri n. 464/2012.
2.4. Poste queste premesse in fatto, con il gravame si chiede la condanna del Comune resistente a risarcire i danni tanto patrimoniali che non patrimoniali, che la ricorrente assume di aver subito per effetto della “paralisi” della sua attività determinata dal diniego di variante del permesso di costruire annullato dal Consiglio di Stato.
3. Il Comune di Genzano di Roma si è costituito in data 5 febbraio 2018, eccependo, preliminarmente, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ex adverso richiesto, nonché la pendenza di un giudizio di revocazione avverso la sentenza n. 290/2016 (domanda di revocazione poi respinta con la sentenza n. 1418/2018) e concludendo, nel merito, per il rigetto del ricorso avversario.
4. All’udienza del 27 febbraio 2024, in vista della quale le parti hanno depositato memorie e documenti, la causa è stata trattenuta in decisione.
5. L’eccezione di prescrizione dell’azione proposta da parte resistente è fondata.
6. Giova ricordare che l’azione di risarcimento del danno è soggetta alla disciplina di cui all’art. 30 comma 3 c.p.a. e quindi al termine decadenziale di 120 giorni dall’annullamento dell’atto, a far data dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 104 del 2010, vale a dire dal 16 settembre 2010, mentre, anteriormente al 16 settembre 2010 – e quindi fino al 15 settembre 2010 – la disciplina era quella della prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2947 c.c. con decorrenza del termine dal momento di adozione dell’atto o meglio della conoscenza della lesione (cfr., in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2023, n. 7354).
6.1. Ebbene, nel caso in esame, deve escludersi che alla presente fattispecie si applichi il termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 3, c.p.a. giacché i provvedimenti da cui l’interessata fa discendere la domanda di risarcimento del danno sono stati emanati e comunicati anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (e segnatamente in data 21 novembre 2008 e 1° dicembre 2008, per quanto si ricava dall’intestazione del ricorso proposto a suo tempo innanzi al T.A.R. dall’odierna ricorrente, definito dalla sopra richiamata sentenza n. 8155/2013: cfr. doc. 10 di parte resistente).
6.2. Alla luce di tali argomenti, deve affermarsi che alla fattispecie in esame si applica il termine di prescrizione quinquennale, che ha iniziato a decorrere dal dicembre 2008, per terminare nel dicembre del 2013, e dunque circa quattro anni prima dell’instaurazione del presente giudizio.
6.3. Non induce a un diverso avviso la circostanza evidenziata dalla ricorrente nella memoria di replica, al fine di resistere all’eccezione in esame, secondo cui, costituendo il ritardo illegittimo dell’amministrazione nel provvedere sull’istanza del privato un illecito permanente che è cessato solo con l’adozione dell’atto, il termine di prescrizione della conseguente pretesa risarcitoria comincerebbe a decorrere solo dal momento della cessazione dell’illecito, come accaduto, nella specie, con la adozione della variante in esecuzione della pronuncia del Consiglio di Stato.
6.4. Va, a questo riguardo, condiviso l’orientamento secondo cui, anche con riguardo alle controversie insorte precedentemente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, il superamento del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa, con l’affermazione dell’autonomia, sul versante processuale, della domanda risarcitoria rispetto a quella impugnatoria, comporta che il termine di prescrizione deve farsi decorrere non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che annulla l’atto lesivo (sentenza in esecuzione della quale, nella specie, è stato rilasciato il provvedimento ampliativo della sfera del privato), bensì dalla data del fatto illecito, coincidente con quella dell’adozione dell’atto illegittimo (nel caso in esame, il diniego sulla richiesta di permesso di costruire in variante): in quest’ottica, infatti, poiché l’annullamento dell’atto amministrativo lesivo non costituisce un requisito di ammissibilità della domanda risarcitoria, il dies a quo per l’esercizio del diritto deve essere individuato nel momento in cui, con l’adozione del ridetto atto lesivo, il danno si è effettivamente verificato (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2019 n. 900).
6.5. Alla stregua delle considerazioni che precedono, non è condivisibile l’assunto di parte ricorrente sopra riportato, perché, alla luce delle indicazioni provenienti dalla richiamata giurisprudenza, lo stesso risulta in contrasto con il disposto dell’art. 2935 c.c., a mente del quale la prescrizione del diritto inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.
6.6. Né, peraltro, può ritenersi che il rilascio del permesso di costruire in variante da parte del Comune resistente in data 16 maggio 2019, possa avere avuto – come viceversa sostenuto dalla ricorrente – alcuna valenza confessoria, tenuto conto che è la stessa ricorrente a riconoscere che ciò è avvenuto in esecuzione della sopra richiamata sentenza n. 1418/2018 del Consiglio di Stato (cfr. p. 4 della memoria del 26 gennaio 2024).
7. Anche a voler condividere il diverso orientamento, espresso da alcune pronunce (cfr., ad esempio, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 20 gennaio 2020, n. 119, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 28 giugno 2018 n. 3977), secondo cui, in ipotesi come la presente, la pendenza del giudizio di annullamento dell’atto ha effetti interruttivi della prescrizione del diritto al risarcimento, la domanda non risulta in ogni caso fondata nel merito.
7.1. Da un primo punto di vista, infatti, deve ritenersi che il Comune resistente ha provato di essere incorso in un errore scusabile (si richiama, a questo riguardo, il prevalente orientamento a tenore del quale, in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, riscontrabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, ovvero per la complessità della situazione di fatto: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 marzo 2019, n. 1815), tenuto conto, per un verso, che la stessa sentenza del Consiglio di Stato n. 290/2016, nel riformare la pronuncia di segno contrario di questo T.A.R., ha compensato le spese tra le parti riscontrando “un’obiettiva incertezza delle qualificazioni normative degli interventi coinvolti” e, per l’altro verso, che la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Velletri ha riscontrato il difetto dell’elemento soggettivo stante “il contesto di incertezza sulla disciplina urbanistica da applicare”.
7.2. Da un secondo punto di vista, la domanda di parte ricorrente risulta sprovvista di prova nel quantum.
7.2.1. A questo proposito, la perizia depositata da parte ricorrente sub doc. 13 si limita a riportare gli andamenti negativi della società ricorrente risultanti dalla documentazione contabile già depositata, replicando, in buona misura, il contenuto di alcuni passaggi del ricorso (p. 14 e 15) e della memoria del 24 gennaio 2024 (p. 13), ma senza chiarire in alcun modo il nesso eziologico che collegherebbe tali andamenti con la vicenda per cui è causa.
7.2.2. Ne deriva che non è possibile disporre la C.T.U. richiesta dalla ricorrente, in quanto la stessa assumerebbe un’inammissibile connotazione esplorativa, dovendosi a questo proposito richiamare l’orientamento secondo cui il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato qualora la parte tenda con esso a supplire alla incompletezza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati: cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II Stralcio, 31 agosto 2023, n. 13494, richiamando Cass., ord. 7 giugno 2019, n. 15521.
8. In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso va respinto.
9. Tenuto conto della complessità in fatto e in diritto della presente vicenda, che ha visto le parti contrapposte in numerosi giudizi, ritiene il Collegio che sussistano giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione, tra le stesse, delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati:
Donatella Scala, Presidente
Vincenzo Sciascia, Referendario
Luigi Edoardo Fiorani, Referendario, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luigi Edoardo Fiorani Donatella Scala





IL SEGRETARIO





Notizia 18/03/2024

Come costruire su ruderi e come fare una verificazione per delineare i volumei pregressi : il CDS indica un vademecum per gli operatori


Pubblicato il 15/03/2024
02563/2024REG.PROV.COLL.
06496/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6496 del 2021, proposto dalla signora Bruna Perdoni, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Perini e Marco Sgroi, con domicilio digitale presso l’indirizzo PEC come da Registri di giustizia;
contro
il Comune di Morfasso, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Manfredi e Maria Grazia Picciano, con domicilio digitale presso l’indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio del secondo dei suindicati difensori in Roma, via Ippolito Nievo, n. 61;
nei confronti
– dell’Unione montana Alta Valnure, in persona del rappresentante legale pro tempore, non costituita nel presente giudizio di appello;
– del signor Roberto Martini, rappresentato e difeso dall’avvocato Roberto Ollari, con domicilio digitale presso l’indirizzo PEC come da Registri di giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, Sez. I, 20 aprile 2021 n. 101, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Morfasso e del signor Roberto Martini e i documenti prodotti;
Esaminate le ulteriori memorie, anche di replica, con i documenti depositati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza dell’8 febbraio 2024 il Cons. Stefano Toschei e uditi, per le parti, gli avvocati Marco Sgroi, Giuseppe Manfredi e Roberto Ollari;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Il presente giudizio in grado di appello ha ad oggetto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, Sez. I, 20 aprile 2021 n. 101 con la quale il predetto TAR ha respinto il ricorso (n. R.g. 87/2018) proposto, dalla signora Bruna Perdoni, al fine di ottenere l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria n. 1/2018 rilasciato dal Comune di Morfasso al signor Roberto Martini in data 18 gennaio 2018 (e di ogni altro atto implicito, presupposto, conseguente e connesso, ivi inclusa, per quanto occorrer possa, la comunicazione 6 settembre 2017, prot. 4239, dell’Unione montana Alta Val Nure).
2. – La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue:
– la signora Bruna Perdoni (unitamente ad altri fratelli e parenti residenti, come lei, negli Stati Uniti) è comproprietaria (fra altri immobili) di un edificio sito nel Comune di Morfasso (in provincia di Piacenza);
– riferisce l’odierna appellante che nel 2010, rientrando in Italia per il consueto periodo di vacanza, lei e i suoi parenti constatarono che i proprietari del terreno confinante, signori Roberto Martini e Giovanna Colla, avevano realizzato una nuova opera;
– dopo avere acquisito presso il comune la necessaria documentazione, si appurò che la nuova opera era stata realizzata in base ad una DIA (n. 3/2009 presentata il 14 gennaio 2009, prot. 207) seguita da una DIA in variante (presentata in data 1 settembre 2010 prot. 5088), conseguentemente venne presentato al Comune di Morfasso, in data 30 settembre 2010, un esposto con il quale si denunciava la non corretta individuazione del titolo edilizio, stante la natura e la consistenza delle opere realizzate con DIA (compendiandosi le stesse in una vera e propria nuova costruzione, capace di realizzare un volume urbanisticamente sensibile), oltre alla non conformità di tali opere rispetto alle normative disciplinanti le distanze tra edifici nonché a quelle volte alla tutela dell’igiene pubblica e della cura degli edifici;
– i signori Perdoni proponevano, quindi, ricorso dinanzi al TAR per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, che veniva accolto con sentenza n. 243/2016 nella quale: a) per un verso si accertava che il locale sottostante la balconata non era stato indicato nella DIA originaria; b) sotto altro profilo, si riteneva fondata la censura con la quale i ricorrenti avevano contestato la mancata effettuazione dei necessari controlli sulla DIA;
– riferisce l’appellante che, nonostante la pronuncia favorevole, nulla avvenne perché alla stessa fosse data ottemperanza, mentre il signor Roberto Martini presentava, in data 1 giugno 2017, una domanda di permesso di costruire in sanatoria;
– acquisito il parere favorevole della Commissione comunale per la qualità architettonica e per il paesaggio (in data 21 novembre 2017), in data 18 gennaio 2018 veniva rilasciato il permesso in sanatoria;
– detto provvedimento era impugnato dalla signora Perdoni dinanzi al TAR per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, perché ritenuto illegittimo. Nel corso del processo è stata disposta verificazione e all’esito dell’istruttoria il ricorso è stato respinto con la sentenza 20 aprile 2021 n. 101.
3. – Propone quindi appello la signora Bruna Perdoni, nei confronti della suddetta sentenza di primo grado n. 101/2021, prospettando sei complesse traiettorie contestative, che possono sintetizzarsi come segue:
I) Error sul fatto – Error in iudicando – Violazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 25 novembre 2002, n. 31 in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 21 ottobre 2004, n. 23, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 30 luglio 2013, n. 15, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione ed elusione del giudicato – Violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e ss. c.p.a. – Error in procedendoper difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. Un primo profilo di erroneità della sentenza qui oggetto di appello concerne la scelta, operata dal primo giudice, di ritenere irritualmente dedotta l’eccezione preliminare sollevata in primo grado di violazione di giudicato (riferita al provvedimento impugnato con riferimento alla precedente sentenza n. 243/2016), per non essere stata proposta con un’azione di ottemperanza. L’appellante ritiene che la proposizione dell’eccezione dovesse, al contrario, essere ritenuta ammissibile e fondata, dal momento che la sentenza del 2016 non poneva un obbligo puntuale all’amministrazione comunale per la sua esecuzione, di talché il comune avrebbe dovuto attivarsi per eseguirla correttamente, come però non è mai avvenuto. Inoltre il giudice di primo grado ha ritenuto il procedimento conclusosi con l’adozione del provvedimento abilitativo in sanatoria “completamente nuovo”, non avvedendosi che le fondamenta dell’istanza di rilascio del titolo in sanatoria andavano rinvenute proprio negli interventi edilizi realizzati con DIA e DIA in variante, ritenuti illegittimi dal TAR nella sentenza n. 243/2016;
II) Error sul fatto– Error in iudicando – Ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 31/2002, in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 23/2004, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 15/2013, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla l. 9 agosto 2013, 98. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e ss. l. 7 agosto 1990, n. 241 e l.r. Emilia Romagna 6 settembre 1993, n. 32. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e per difetto di motivazione – Violazione e falsa applicazione degli artt. 66 e 67 c.p.a. – Error in procedendo per difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. [Sul rigetto del secondo e terzo motivo di ricorso concernente l’illegittimità dei provvedimenti impugnati perché basati sull’errato presupposto giuridico che l’opera sanata costituisca ristrutturazione edilizia” e sul difetto di istruttoria della pratica urbanistico- edilizia in ordine alle circostanze ed alle ragioni di fatto e di diritto che potessero condurre ad una soluzione corrispondente a quella già cassata dalla sent. TAR Parma n. n. 243/2016; sull’insufficienza sostanziale e formale della verificazione onde sostenere le conclusioni della sentenza appellata]. La sentenza qui oggetto di appello poggia, sotto il profilo tecnico, sugli esiti della verificazione disposta. Tali esiti sono stati puntualmente contestati nel corso del processo di primo grado ma il TAR ha ritenuto di poter superare le contestazioni con argomentazioni che non convincono l’odierna appellante, anche perché (si sostiene) il verificatore ha fondato la propria valutazione tecnica sulla perizia di parte presentata dal tecnico del controinteressato che, peraltro, è addirittura successiva all’epoca di rilascio del provvedimento edilizio in sanatoria oggetto di impugnazione, trascurando di considerare le controdeduzioni tecniche offerte dal perito della parte ricorrente. Va peraltro rimarcato, a confutare la legittimità della verificazione svolta in primo grado, che il verificatore ha illegittimamente compiuto una vera e propria integrazione dell’istruttoria procedimentale (peraltro, non adeguatamente) svolta dall’amministrazione, esperendo complesse attività tecniche evidentemente mancanti in sede di istruttoria comunale. Nello specifico l’appellante lamenta che: “il Verificatore non si è limitato a verificare se – poniamo – le argomentazioni addotte per sostenere che il preteso edificio preesistente avesse dimensioni maggiori di quello realizzato dal controinteressato fossero corrette e conformi ai principi e alle regole tecniche che le governano, ma tali argomentazioni le ha sviluppate direttamente ed ex novo egli stesso (sulla scorta, si direbbe, della perizia “postuma” dell’Arch. Orsi), perché nell’istruttoria comunale nessuno vi aveva provveduto, nessuno le aveva sviluppate: dunque non ha verificato, ma ha integrato. Tale integrazione – al netto della sua (contestata) utilizzabilità, in quanto postuma, onde legittimare il provvedimento impugnato – è evidentemente un’attività tipicamente peritale, e, dunque, andava svolta secondo i parametri formali delle CTU. In particolare, la relazione peritale finale avrebbe dovuto essere sottoposta ai CTP, questi avrebbero dovuto formulare eventuali osservazioni/obiezioni, sulle quali il Verificatore-CTU avrebbe dovuto esprimersi specificamente” (così, testualmente, a pag. 21 dell’atto di appello);
III) Error sul fatto – Error in iudicando – Ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione della l.r. Emilia Romagna 31/2002, in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 23/2004, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 15/2013, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e ss. l. 241/1990 e l.r. Emilia Romagna 32/1993. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e per difetto di motivazione – Error in procedendo per difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. [Sul rigetto del secondo e terzo motivo di ricorso concernente l’illegittimità dei provvedimenti impugnati perché basati sull’errato presupposto giuridico che l’opera sanata costituisca ristrutturazione edilizia” e sul difetto di istruttoria della pratica urbanistico-edilizia “in ordine alle circostanze ed alle ragioni di fatto e di diritto che potessero condurre ad una soluzione corrispondente a quella già cassata dalla sent. TAR Parma n. 243/2016]. La signora Perdoni contesta, inoltre, l’ulteriore conclusione alla quale è giunto il verificatore, poi confermata dal giudice di primo grado, secondo cui il permesso di costruire per cui è causa sarebbe “legittimo in quanto la ricostruzione di che trattasi non integra la fattispecie della ricostruzione di ruderi (che va considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione) atteso che, sebbene non sia stata determinata con precisione la consistenza della precedente costruzione è stato con sicurezza affermato da parte del Verificatore che la nuova costruzione è di molto inferiore rispetto al volume preesistente” (così, testualmente, a pag. 23 dell’atto di appello). Infatti, nella specie: a) il comune non ha accertato nulla di quanto sarebbe stato necessario per disporre la sanatoria, dal momento che (come si è sopra già sostenuto) l’accertamento dei presupposti per rilasciare il titolo in sanatoria è comunque successivo rispetto all’adozione del provvedimento, poiché detto accertamento è stato effettuato, del tutto impropriamente, dal verificatore; b) ad ogni modo la verificazione ha accertato, quanto al manufatto che si pretende essere preesistente, che “ciò che è di difficile individuazione è la sua esatta consistenza, sia per quanto riguarda le altezze, che la profondità sul lotto, non avendo a disposizioni elaborati grafici, planimetrie ecc.”, così dichiarandosi la totale assenza di elaborati grafici e planimetrie, oltre che di qualunque dato concernente la consistenza planivolumetrica del contestato manufatto diruto, nemmeno nella forma minimale; c) nulla è stato detto circa le contestazioni che la odierna appellante ha mosso sia nei confronti del rogito di acquisto Martini, sia alla utilità degli elementi indiziari considerati dal verificatore, tenuto anche conto che l’indicazione circa la presenza “due elementi in pietra sporgenti dalla muratura”, non può costituire un decisivo riscontro ai dubbi sulla preesistenza o meno di un manufatto preesistente che è stato recuperato; d) la totale ed assoluta carenza di riferimenti temporali, circa i quali la verificazione confessa senza ambiguità la propria impotenza, e ciò anche dopo il sopralluogo, riferendosi ad una “preesistenza che in data non definita è crollata”, costituiscono elementi che contribuiscono a rendere opaca la verificazione effettuata e soprattutto inidonea a dimostrare la sussistenza di un “antico manufatto” e quindi dei presupposti per il rilascio del provvedimento edilizio in sanatoria, non essendo dimostrato il principio di continuità temporale tra i manufatti, preesistente e successivamente realizzato; e) è infine contestabile l’assunto, fatto proprio dall’amministrazione e dal primo giudice secondo il quale, per aversi ristrutturazione edilizia mediante ricostruzione, sia sufficiente che il manufatto ristrutturato risulti di dimensioni inferiori rispetto a quello originario, crollato o demolito, oggetto di ristrutturazione/ricostruzione;
IV) Error sul fatto– Error in iudicando – Ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione della l.r. Emilia Romagna 31/2002, in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 23/2004, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 15/2013, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e ss. l. 241/1990 e l.r. Emilia Romagna 32/1993. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e per difetto di motivazione –Error in procedendo per difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. [Sul rigetto del secondo e terzo motivo di ricorso concernente l’illegittimità dei provvedimenti impugnati perché basati sull’errato presupposto giuridico che l’opera sanata costituisca ristrutturazione edilizia e sul difetto di istruttoria della pratica urbanistico-edilizia in ordine alle circostanze ed alle ragioni di fatto e di diritto che potessero condurre ad una soluzione corrispondente a quella già cassata dalla sentenza del TAR Emilia Romagna, sede staccata di Parma n. 243/2016; sulla ritenuta irrilevanza del dedotto difetto di istruttoria per il carattere vincolato del provvedimento impugnato]. Ad avviso dell’appellante la considerazione espressa dal giudice di prime cure affermando che “(…) nel presente caso, anche qualora vi fosse stato un difetto di istruttoria perché il Comune odierno resistente avrebbe emesso il permesso di costruire in sanatoria in assenza di un completo esame, tale difetto sarebbe irrilevante atteso che il Verificatore ha dato atto della circostanza che, con riferimento al deposito realizzato dal controinteressato, vi era un immobile preesistente e lo stesso era di volume superiore all’attuale e, dunque, tali circostanze fattuali, per le ragioni sopra esplicate, consentono di ritenere l’intervento svolto nel caso de quo come ristrutturazione edilizia e conseguentemente il provvedimento comunale impugnato risulta legittimo perché lo stesso, vista la situazione fattuale, non avrebbe potuto essere diverso (…)” non è affatto condivisibile, non potendo l’intervento del verificatore sopperire alle carenze manifestatesi nel corso del procedimento che ha condotto all’adozione del provvedimento in sanatoria principalmente impugnato in primo grado né essendo emersi elementi nuovi e ulteriori rispetto alla situazione edilizia del 2009, radicata nella DIA nella DIA in variante, titoli che già il giudice amministrativo aveva ritenuto, con la sentenza del 2016, essere illegittimi;
V) Error sul fatto – Error in iudicando – Ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione della l.r. Emilia Romagna 31/2002, in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 23/2004, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 15/2013, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e ss. l. 241/1990 e l.r. Emilia Romagna 32/1993. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e per difetto di motivazione – Error in procedendo per difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. [Sul rigetto del quarto motivo di ricorso, concernente l’eventuale configurazione del provvedimento impugnato quale permesso di costruire per nuova costruzione]. Se, poi, il provvedimento impugnato in primo grado volesse qualificarsi quale autonomo e nuovo permesso di costruire per realizzare una nuova costruzione, esso sarebbe comunque illegittimo per le ragioni tutte svolte nel quinto motivo di ricorso dedotto;
VI) Error sul fatto – Error in iudicando – Ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 22 d.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione della l.r. Emilia Romagna 31/2002, in quanto tuttora vigente; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 23/2004, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.; violazione e falsa applicazione l.r. Emilia Romagna 15/2013, con particolare ma non esclusivo riferimento agli artt. 9 e ss.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e ss. l. 241/1990 e l.r. Emilia Romagna 32/1993. Violazione e falsa applicazione del Regolamento edilizio del Comune di Morfasso, del PRG del Comune di Morfasso e del POC adottato dal Comune di Morfasso. Violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e per difetto di motivazione – Error in procedendo per difetto di motivazione, contraddittorietà, carenza d’istruttoria e illogicità. [Sul rigetto del quinto motivo di ricorso concernente il vincolo idrogeologico]. Il giudice di primo grado ha ritenuto di respingere il quinto motivo di ricorso affermando (testualmente) che “il Comune di Morfasso ha rivisto il proprio P.R.G. tramite una variante ordinaria approvata con la deliberazione G.P. n. 677/2008, ossia svariati anni dopo la Legge regionale n. 3/1999 e la Delibera di Giunta Regionale 1117/2000”. Sostiene l’appellante che, però, non vi sia stata alcuna reale variante predisposta e approvata su iniziativa del Comune di Morfasso, essendosi trattato di un mero restyling dei relativi atti collegata ad una operazione di digitalizzazione delle tavole di piano e ad una parziale modifica delle NTA. Dovendosi dunque ritenere che non vi sia stata la richiamata variante generale di piano, va ribadito come non sussistessero nella specie le condizioni previste dalla legge per esonerare la pratica edilizia per cui è causa dalla procedura di autorizzazione in sanatoria quanto al vincolo idrogeologico.
4. – Si è costituito anche nella presente sede di appello il Comune di Morfasso che ha contestato analiticamente le avverse prospettazioni, confermando la legittimità del provvedimento comunale impugnato e chiedendo la reiezione del ricorso stante la correttezza del percorso logico giuridico sviluppato dal giudice di primo grado per come emerge dalla sentenza qui oggetto di appello.
5. – Si è altresì costituito in grado di appello il controinteressato signor Roberto Martini, proponendo nuovamente le eccezioni già sollevate in primo grado e aventi ad oggetto l’asserita irricevibilità del ricorso, considerato quale strumento di proposizione di una azione di ottemperanza e comunque l’insussistenza dell’interesse a ricorrere in capo alla odierna parte appellante che non avrebbe comprovato il pregiudizio subito dall’atto impugnato, non essendo sufficiente a tal fine il mero elemento della vicinitas.
Nel merito anche il signor Martini ha ribadito la correttezza della sentenza di primo grado qui oggetto di appello e la legittimità della procedura svolta per addivenire all’adozione del titolo edilizio contestato.
Nel corso del processo di appello (al quale non ha partecipato l’Unione montana Alta Valnure, sebbene correttamente coinvolta in giudizio) le parti costituite hanno depositato memorie, anche di replica, con documenti, confermando le conclusioni dalle stesse già rassegnate nei precedenti atti processuali.
6. – Il Collegio ritiene che, ai fini della definizione del presente contenzioso in grado di appello, occorra brevemente ripercorrere – in chiave dinamica – la sequenza delle vicende che hanno condotto all’adozione del permesso di costruire in sanatoria impugnato principalmente in primo grado.
Nel 2009, dopo avere acquistato nel 1998 l’immobile sul quale sono state poi effettuate le opere qui oggetto di contestazione, il signor Roberto Martini presentava una DIA (n. 3/2009) al fine di realizzare un terrazzo/balconata in continuità con quanto già esisteva e successivamente, nel corso di detti lavori, presentava una DIA in variante (prot. 5088 del settembre 2010), per realizzare “una scala di collegamento tra il portico oggetto di richiesta ed il vano sottostante nonché il tamponamento di tale locale”.
I due titoli edilizi venivano dichiarati illegittimi dal TAR per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, con la sentenza n. 243/2016 nella quale, per quanto può essere qui di rilievo, era indicato che:
– la DIA originariamente presentata si riferiva alla realizzazione di una balconata mentre la DIA in variante successivamente intervenuta prevede la creazione di una scala di collegamento tra il terrazzo e un “locale sottostante” non precedentemente assentito e ab origine inesistente come fotograficamente documentato;
– l’inesistenza del locale sottostante la balconata oggetto della DIA n. 3/2009 emerge dal mero confronto degli elaborati grafici allegati ai due titoli edilizi, poiché nell’elaborato allegato alla DIA in variante si evidenzia l’esistenza di un locale posto in posizione sottostante alla balconata già oggetto della DIA originaria delimitato da opere in muratura nelle quali sono ricavate una porta finestra visibile nel prospetto ovest e due finestre visibili nel prospetto sud;
– le suddette aperture (che palesano inequivocabilmente la realizzazione di un locale avente pianta corrispondente alla proiezione al suolo della balconata) non figurano invece negli elaborati grafici allegati alla DIA originaria che sono redatti in modo equivoco senza palesare l’esistenza di alcuna opera di delimitazione (muri) dell’area sottostante alla balconata: ragione per la quale l’esistenza di detto “locale sottostante” non può considerarsi come accertata (nei sensi di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001).
7. – Il signor Martini non impugnava la surrichiamata sentenza, scegliendo una diversa “via amministrativa” che gli consentisse di sanare l’intervento edilizio realizzato, ormai privo di titolo edilizio che lo supportasse legittimamente. Sicché (come risulta dalla documentazione prodotta nel primo grado di giudizio) il signor Roberto Martini presentava al Comune di Morfasso, in data 1 giugno 2017, prot. 1726, una domanda di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 17, comma 1, l.r. Emilia Romagna 23/2004, delle opere realizzate in data 16 gennaio 2009, coincidenti con quelle oggetto della DIA e della DIA in variante non più efficaci dopo la sentenza del TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, n. 243/2016 e sul presupposto che le opere riguardassero un fabbricato preesistente, crollato da diverso tempo e di cui veniva comprovata esistenza e consistenza con taluni documenti. Il Comune di Morfasso, all’esito della relativa istruttoria (nel corso della quale gli uffici richiedevano all’interessato integrazioni documentali e la commissione per la qualità architettonica e il paesaggio esprimeva parere favorevole, in data 21 novembre 2017, circa il “ripristino tipologico per recupero di locale deposito e terrazzo”), rilasciava il permesso di costruire in sanatoria n. 1/2018 del 18 gennaio 2018 “per l’esecuzione dei lavori di ripristino per recupero di locale deposito e terrazzo”, nel quale era ricostruita la “storia” dell’immobile oggetto di sanatoria, anche in virtù di dichiarazioni circa la preesistenza e l’epoca di realizzazione del manufatto parzialmente diruto e oggetto di ricostruzione, oltre a darsi atto della doppia conformità.
A tal proposito, in particolare e per quanto è qui di stretto interesse, nel rilasciare il provvedimento edilizio adottato in sanatoria (n. 1/2018 del 18 gennaio 2018) “per l’esecuzione dei lavori di ripristino per recupero di locale deposito e terrazzo”, il Comune di Morfasso dava espressamente atto che:
– dalla visura catastale storica risultava che l’immobile era accatastato, fino all’anno 2010, come fabbricato rurale;
– dalla mappa catastale storica fornita dall’Archivio Cartografico di Piacenza, risultava che il fabbricato oggetto di sanatoria era preesistente;
– la ricostruzione di fabbricati interamente crollati o ridotti a rudere è equiparata, dalla vigente normativa in materia, alla ristrutturazione edilizia;
– con la comunicazione dell’Unione montana Alta Val Nure, competente in materia di vincolo idrogeologico, rilasciata in data 6 settembre 2017 al prot. n. 4239, si attestava che, relativamente al medesimo vincolo, i lavori di cui trattasi non abbisognano di alcuna procedura di “Richiesta di autorizzazione in sanatoria”;
– era stato espresso il parere favorevole della Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio nella seduta del 21 novembre 2017 (verbale n. 3).
8. – Proposto ricorso avverso tale provvedimento da parte della signora Bruna Perdoni, il giudice di primo grado, nel corso del processo, riteneva indispensabile disporre verificazione con ordinanza 13 febbraio 2020 n. 38. Con detta ordinanza il TAR:
– premesso che la ricorrente ha dedotto, “l’illegittimità del permesso di costruire in sanatoria impugnato, rilevando, tra l’altro, che l’intervento realizzato non costituirebbe ristrutturazione edilizia, in quanto gli interessati non avrebbero dimostrato l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale hanno chiesto la ricostruzione, non risultando sufficiente, secondo la tesi della ricorrente, la sola prova che un immobile in parte poi crollato o demolito fosse stato un tempo genericamente esistente”;
– ritenuto che fosse necessario “approfondire l’aspetto tecnico della previa esistenza del manufatto che si assume diruto, nel senso di individuare se sussistano elementi oggettivi che permettano di identificare con la necessaria precisione e intuitività caratteristiche planivolumetriche, dimensioni o sagoma dell’opera”;
– disponeva verificazione, affidandola al responsabile del Servizio controllo abusi edilizi del Comune di Parma, al fine di appurare “se gli elementi raccolti nel corso dell’istruttoria procedimentale svolta dal Comune resistente fossero oggettivamente idonei ad accertare la preesistente consistenza dell’edificio crollato/demolito, conformemente a quanto disposto dall’art. 3 comma 1 lett. d) del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Nella relazione di verificazione, depositata nel fascicolo del giudizio di primo grado in data 22 settembre 2020, si legge in particolare che:
– viene data “per documentalmente certa l’esistenza di un manufatto, che in data non definita è crollato”, specificando inoltre come “ciò che è di difficile individuazione è la sua esatta consistenza, sia per quanto riguarda le altezze, che la profondità sul lotto, non avendo a disposizioni elaborati grafici, planimetrie ecc.”;
– il quadro di incertezza può essere superato attraverso l’utilizzo “della documentazione fotografica prodotta prima dei lavori”, dalla cui analisi “si può supporre effettivamente che il manufatto crollato arrivasse in altezza là dove è presente il dente di pietre che fuoriesce dal muro di confine lato nord, unitamente allo spezzone di muratura lato sud, pertanto quanto realizzato risulta posizionato ad una quota decisamente molto inferiore rispetto alle preesistenze in loco”;
– all’esito del sopralluogo, svoltosi alla presenza dei tecnici di parte, tenuto conto delle rappresentazioni fotografiche dello stato dell’immobile, può ritenersi acclarato che quanto realizzato sia una minima parte di quanto precedentemente esistente e sia supportato dagli strumenti urbanistici che ne prevedono il ripristino tipologico. In particolare, la constatazione circa l’esistenza di due elementi, “quello di pietra che fuoriesce dal muro di confine lato nord, unitamente allo spezzone di muratura posto a lato sud, porta a confermare la presenza, nel passato, di un manufatto crollato la cui sommità era superiore rispetto a quella del manufatto oggetto della verificazione”;
– l’individuazione nella proprietà Perdoni, posta in adiacenza alla proprietà Martini, di un’apertura tamponata che verosimilmente consentiva l’accesso alla precedente struttura demolita e di un condotto di scarico in pietra, ha condotto a supporre che “il camino in questione fosse in precedenza una porta che conduceva ad un altro vano. Tale porta è stata successivamente tamponata con materiale non originale (mattoni al posto della pietra, quest’ultima utilizzata per la costruzione dell’intero edificio). Gli stessi mattoni sono stati verosimilmente utilizzati per tamponare la citata condotta di scarico del camino. Queste due preesistenze (i due denti di pietra e la porta tamponata per ricavare un camino), unitamente alle fotografie scattate prima dei lavori da parte del signor Martini danno la certezza di una preesistenza ad oggi crollata”.
9. – Tenuto conto di quanto sopra e ritenendo di poter superare le eccezioni preliminari sollevate anche nella sede di appello dal controinteressato stante la infondatezza dei motivi di appello dedotti, il Collegio ritiene che il mezzo di gravame proposto vada respinto per quanto qui appresso verrà illustrato.
In primo luogo non si ravvede alcun contrasto tra il contenuto del provvedimento di accertamento di conformità edilizia n. 1/2018 e il decisum di cui alla sentenza n. 243/2016 pronunciata dal TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma.
Come si è già più sopra sottolineato il surrichiamato precedente giudiziale presenta un oggetto non compatibile con quello sottoposto all’esame degli uffici comunali con l’istanza presentata dal signor Martini al fine di richiedere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria delle opere edilizie. Se è indubitabilmente vero che dette opere coincidono con quelle fatte oggetto di DIA e di DIA in variante, titoli edilizi entrambi annullati con la sentenza n. 243/2016, è altrettanto vero che da detto pronunciamento giudiziale non scaturisce alcun divieto a carico del signor Martini di utilizzare gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione dei proprietari degli immobili laddove intendano, nella sussistenza dei relativi presupposti, sanare opere edilizie abusivamente realizzate.
Ma in disparte quanto sopra va anche rilevato come non emerga, dalla motivazione della richiamata sentenza n. 243/2016, alcun vincolo specifico in capo all’amministrazione comunale soccombente in quel giudizio che indirizzi un futuro esercizio del potere amministrativo in materia edilizia con riferimento alle opere realizzate abusivamente sull’immobile in questione.
Ne consegue che il signor Martini, presentando la domanda di permesso di costruire in sanatoria in data 1 giugno 2017 (prot. n. 1726), ha chiesto agli uffici comunali una nuova (e mai fino a quel momento richiesta) determinazione in merito alla sanabilità o meno delle opere edilizie realizzate, di talché agli uffici competenti, come poi hanno effettivamente fatto, è stato chiesto di istruire un nuovo (e autonomo) procedimento di sanatoria delle opere abusivamente realizzate, del tutto scisso e non sovrapponibile con la vicenda edilizia scrutinata dal TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma e definita con la sentenza 243/2016.
Deriva da quanto sopra che l’assunto fatto proprio dalla odierna appellante circa il contrasto tra il provvedimento impugnato e le indicazioni sollecitate dal giudice amministrativo con la sentenza n. 243/2016 non può trovare condivisione.
10. – Quanto al secondo ordine di contestazioni espresse nel presente grado di appello preme, in via preliminare, chiarire quale sia la disciplina dello strumento istruttorio della verificazione e quali siano i profili che ne caratterizzano il presupposto per disporla e le regole di esercizio.
Come è noto (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. III, 25 luglio 2023 n. 7288), la differenza tra la consulenza tecnica d’ufficio e la verificazione viene solitamente declinata nel senso che la prima (art. 67 c.p.a.) si estrinseca in una valutazione alla stregua della discrezionalità tecnica, in cui il consulente non si limita cioè ad un’attività meramente ricognitiva e circoscritta ad un elemento o fatto specifico ma, utilizzando le proprie specifiche cognizioni tecniche, prende in carico situazioni ed oggetti complessi al fine di elaborare un proprio giudizio, e di conseguenza a rispondere al quesito ritenuto dal giudice utile ai fini del decidere con una soluzione tecnicamente idonea alla stregua di un “giudizio di valore”; mentre la verificazione (art. 66, cod. proc. amm.) è diretta ad appurare la realtà oggettiva delle cose, e si risolve essenzialmente in un accertamento diretto ad individuare la sussistenza di determinati elementi, ovvero a conseguire la conoscenza dei fatti, la cui esistenza non sia accertabile o desumibile con certezza dalle risultanze documentali, e si estrinseca quindi in un “giudizio di risultato” rispetto al quale il contraddittorio concerne esclusivamente gli sviluppi e le risultanze della verificazione. In buona sostanza, la verificazione comporta l’intervento, in funzione consultiva del giudice, di un organismo qualificato per la risoluzione di controversie che implichino l’apporto di competenze tecniche essenziali ai fini della definizione della questione; ha una finalità di accertamento, ma pur sempre di fatti complessi, e dunque sulla base di competenze che implicano l’espressione di un sapere specifico, “in funzione consultiva del giudice” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 330/2020).
La giurisprudenza, in materia di verificazione, ha poi frequentemente osservato (cfr., ad esempio, Cons. Stato, VI, 9 dicembre 2022 n. 10790) che:
– una volta che il Collegio ha ritenuto che le questioni sottese alla controversia hanno un carattere talmente tecnico da esulare dalla propria competenza e da richiedere l’intervento di un soggetto dotato di tali specifiche competenze, le conclusioni alle quali questi è pervenuto potranno dallo stesso Collegio essere superate solo a fronte di una manifesta erroneità, ictu oculi ravvisabile (cfr., nello specifico, Cons. Stato, Sez. III, 7 gennaio 2022 n. 65);
– nel processo amministrativo la verificazione, pur dovendo correttamente prendere in esame anche le controdeduzioni dei consulenti delle parti, ben può divergere da esse, trattandosi di un atto istruttorio il cui esito, se condiviso dal giudice nell’esercizio del suo potere di apprezzamento, non può essere posto in discussione dalle consulenze di parte già proposte ed esaminate nel corso del procedimento conclusosi con la relazione del verificatore (cfr., ancora, Cons. Stato, Sez. V, 20 ottobre 2023 n. 9117).
Va poi ulteriormente ricordato che, in sede di verificazione, quanto alle garanzie di difesa delle parti, nel silenzio dell’art. 66 c.p.a., che, a differenza dell’art. 67 relativo alla C.T.U., non prevede espressamente la facoltà di nomina di consulenti di parte, la partecipazione non risulta preclusa a mezzo dell’assistenza da parte di un perito di fiducia, anche ove nulla disponga in merito l’ordinanza istruttoria (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 4 maggio 2016 n. 1757 e Sez. IV, 11 marzo 2013 n. 1464). Inoltre il contraddittorio processuale è assicurato dall’ordinamento dalla possibilità per le parti di prendere posizione sulla relazione di verificazione, mediante il deposito di apposita memoria difensiva, con cui formulare le pertinenti osservazioni (Cons. Stato, Sez. III, 26 gennaio 2021 n. 771).
Nel caso di specie l’ordinanza del TAR che ha disposto, nel corso del processo di primo grado, la verificazione, non ha puntualizzato che essa dovesse avvenire nel necessario contraddittorio delle parti e la scelta di un siffatto metodo di svolgimento dello strumento istruttorio spetta all’esercizio della potestà discrezionale del giudice nel giovarsi dell’ausilio di un tecnico verificatore. Nondimeno, nella specie, una parte dell’attività svolta in sede di verificazione, segnatamente il sopralluogo, è avvenuta alla presenza di tecnici di parte che non solo hanno avuto modo di esprimersi, ma le cui indicazioni sono state fatte oggetto di considerazione da parte del verificatore, che le ha anche in parte riportate nella relazione conclusiva. A ciò si aggiunga che le parti hanno avuto modo di prendere posizione, anche sotto il profilo tecnico, in merito alle conclusioni raggiunte dal verificatore ed esplicitate nella relazione conclusiva depositata, attraverso memorie e deposito di relazioni tecniche e che tali strumenti di esercizio del diritto di difesa sono stati ampiamente replicati in sede di appello.
11. – Con il terzo ordine di contestazioni proposte nella sede di appello la signora Perdoni manifesta di non condividere affatto, nei contenuti di merito, le conclusioni alle quali è giunto il verificatore e fatte proprie dal giudice di primo grado, con particolare riferimento alla preesistenza di un manufatto andato parzialmente diruto e ricostruito con le opere rispetto alle quali si è ottenuta (illegittimamente sostiene l’appellante) la sanatoria attraverso un (contestato quanto a qualificazione giuridica) intervento di ristrutturazione e non di realizzazione ex novo di dette opere.
Sul punto va detto che la contestazione mossa alle conclusioni alle quali è giunto il verificatore si pongono nell’ambito della opinabilità non essendo stata presentata, ad avviso del Collegio, una prova tecnica in grado di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le opere abusive non abbiano preso il posto di un preesistente manufatto (e che quindi siano state realizzate ex novo).
Ne deriva che la censura dedotta come terza in sede di appello non può trovare condivisione in quanto l’intervento edilizio oggetto del provvedimento assunto in sanatoria costituisce, per quanto emerge dall’esito della verificazione, un’attività di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 6 giugno 2021, n. 380, a mente del quale, come è noto, “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Quanto alla consistenza planovolumetrica e alla relazione tra l’edificio preesistente crollato e quello ricostruito si è indubbiamente raggiunta, all’esito della verificazione, la dimostrazione che l’intervento di ricostruzione è caratterizzato per misure e ampiezza e, quindi, per consistenza da un’opera caratterizzata da un impatto inferiore rispetto al manufatto preesistente, situazione che coincide con la previsione normativa appena riprodotta che coincide con la qualificazione della ristrutturazione edilizia.
12. – Neppure il quarto motivo di appello è destinato a poter trovare accoglimento.
La contestazione circa l’incompletezza dell’istruttoria svolta dagli uffici per giungere all’adozione del provvedimento di accertamento di conformità principalmente impugnato in primo grado poggia sulla considerazione, espressa dalla odierna appellante, della utilizzazione nel corso di tale ultimo procedimento degli stessi elementi documentali che già avevano fatto oggetto della DIA e della DIA in variante dichiarate illegittime con la sentenza n. 243/2016.
Tale ricostruzione della vicenda, però, non tiene conto che il nuovo procedimento, attivato dal signor Martini con la presentazione della domanda di permesso di costruire in sanatoria effettuata in data 1 giugno 2017, costituisce un fatto (amministrativo) nuovo rispetto alle due procedure di DIA sopra ricordate, nel corso del quale sono stati prodotti documenti nuovi, anche solo perché gli uffici comunali ebbero a chiedere all’interessato e ad ottenere da questi una integrazione documentale nel corso del procedimento che ha, evidentemente, condotto all’acquisizione di elementi mai prima resi disponibili rispetto a quanto era stato prodotto insieme con la DIA e con la DIA in variante, delle quali si è detto.
Né la parte appellante (neppure) chiarisce quali siano i documenti che il signor Martini avrebbe dovuto produrre e che non ha depositato al fine di rappresentare la novità del procedimento che ha condotto al rilascio del procedimento in sanatoria rispetto all’epoca della presentazione della DIA e della DIA in variante, se non facendo riferimento ad una supposizione di indebito intervento istruttorio postumo costituito dalle risultanze della verificazione che non potrebbero tornare utili al signor Martini per dimostrare la legittimità del provvedimento di sanatoria sotto il profilo della carenza istruttoria.
E’ evidente che gli esiti della verificazione hanno avuto il pregio di dimostrare “nei fatti” la sussistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di costruire in sanatoria la cui legittimità viene qui contestata dalla signora Perdoni, di talché in ogni modo, soprattutto sotto il profilo sostanziale, il rilascio di detto provvedimento deve andare esente da censure, se non puramente formali e irrilevanti, finendo con l’impingere sul terreno della mera irregolarità procedurale.
L’infondatezza del quarto motivo di appello travolge anche il quinto e successivo motivo essendo quest’ultimo strettamente contiguo (se non addirittura sovrapponibile) con il precedente.
13. – Quanto al sesto ed ultimo motivo di appello, ad avviso del Collegio, la parte appellante non produce elementi nuovi e utili per contestare la ricostruzione fatta propria dal giudice di primo grado degli elementi giuridici al cospetto dei quali l’autorizzazione idrogeologica non atteneva al rilascio del provvedimento di costruire in sanatoria per un’opera costituente ristrutturazione edilizia.
Infatti, come è ormai noto alle parti, avendo le stesse ampiamente dibattuto sull’argomento nel corso del primo grado di giudizio, è avvenuto che:
– in primo luogo il Comune di Morfasso ha approvato una variante ordinaria al proprio Piano regolatore generale (con deliberazione G.P. n. 677/2008) in epoca (dunque) di molto successiva rispetto all’entrata in vigore della l.r. Emilia Romagna n. 3/1999 e anche rispetto alla data di adozione della delibera della Giunta Regionale n. 1117/2000 dell’11 luglio 2000 che costituirebbero le fonti impositive dell’obbligo di acquisire l’autorizzazione in questione anche per interventi edilizi quale è quello qui in esame;
– infatti l’art. 2.8.2 della DGR 1117/2000 stabilisce che “Fino alla approvazione dei PSC, dei POC e dei RUE i Comuni danno attuazione ai vigenti PRG e possono approvare varianti degli stessi, nell’ambito di quanto stabilito dall’art. 41 della L.R. n. 20/2000” e che a seguito della modifica del quadro normativo in materia urbanistica introdotto con la l.r. Emilia Romagna 24 marzo 2000, n. 20, in luogo di PRG dovranno intendersi il Piano strutturale comunale (PSC) il Piano operativo comunale (POC) ed il Regolamento urbanistico ed edilizio (RUE);
– da ciò discende che il Comune di Morfasso, tenuto conto anche di quanto dispone l’art. 150, comma 6, l.r. Emilia Romagna 3/1999 e cioè che “Il Comune può adeguare il PRG vigente alle previsioni di cui al comma 5 attraverso apposita variante, adottata ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 15 della L.R. n. 47 del 1978”, ha escluso espressamente, per le opere quale è quella di cui qui si discute, la necessità di qualsivoglia preventiva autorizzazione o comunicazione ai fini della tutela idrogeologica.
D’altronde la supposizione adombrata dalla parte appellante circa un intervento limitato alla operazione di digitalizzazione delle tavole non si presenta in linea con il contenuto della ridetta variante e non è dunque idoneo ad escludere la portata innovativo-integrativa degli interventi novellatori sopra richiamati.
Ne consegue l’infondatezza anche del sesto motivo di appello.
14. – In ragione di quanto si è sopra illustrato il ricorso in appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.
Le spese del grado di appello seguono la soccombenza, in virtù del principio di cui all’art. 91 c.p.a., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a., sicché la signora Bruna Perdoni deve essere condannata a rifondere le spese della presente lite in favore del Comune di Morfasso e del signor Roberto Martini, che possono complessivamente liquidarsi nella misura di € 6.000,00 (euro seimila/00), suddivisi in € 3.000,00 (euro tremila/00) per ciascuna delle due parti suddette, oltre accessori come per legge. Le spese possono poi essere compensate con riferimento all’Unione montana Alta Valnure.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 6496/2021), come indicato in epigrafe, lo respinge.
Condanna la signora Bruna Perdoni a rifondere le spese del grado di appello in favore del Comune di Morfasso, in persona del Sindaco pro tempore e del signor Roberto Martini, liquidandole complessivamente nella misura di € 6.000,00 (euro seimila/00), suddivisi in € 3.000,00 (euro tremila/00) per ciascuna delle due parti suddette, oltre accessori come per legge.
Spese compensate con riferimento alla restante parte evocata in giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente
Giordano Lamberti, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere, Estensore
Roberto Caponigro, Consigliere
Thomas Mathà, Consigliere
IL SEGRETARIO





Notizia 12/03/2024

Conformare o espropriare: questo è il dilemma (amletico)!





Abstract
I vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore: commento a Consiglio di Stato, sez. VI, 24 gennaio 2023, n. 759.
***

La pianificazione è un atto complesso, che incide sulla proprietà di migliaia di persone, anche se attuata in un comune di modeste dimensioni e con i nomi più vari che oggi assumono i PRG (PUG, PGT etc.) nelle varie Regioni.
Ciò premesso è difficile capire se un terreno destinato a funzioni pubbliche sia da espropriare oppure no. La questione è rilevante sia per il Comune (che deve programmare l’opera, prevederne i costi e dichiararne la pubblica utilità) sia per il privato, che vedrà vincolato il proprio terreno per un tempo limitato (per l’esproprio) o illimitato (se si tratta di una norma che non prevede la perdita di proprietà).
L’espropriazione si basa su tre fasi:
1. vincolo;
2. dichiarazione di P.U. (pubblica utilità);
3. decreto di esproprio ed indennizzo.
Con le prime due fasi (vincolo e P.U.) si radica il diritto ad espropriare.
La terza fase (decreto di esproprio ed indennizzo) riguarda il pagamento del prezzo dell’ablazione delle aree.
Ma queste fasi presuppongono che il vincolo di destinazione imposti dal piano regolatore sia espropriativo.
La sentenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 24 gennaio 2023, n. 759) ribadisce con chiarezza la differenza tra vincolo conformativo ed espropriativo.
Sul piano generale, i vincoli conformativi riguardano una generalità di beni, in funzione della destinazione assolta dall'intera zona in cui questi ricadono. Si tratta in sostanza di vincoli che riguardano i modi di godimento e utilizzazione del bene, non sono soggetti a decadenza e non danno diritto ad alcun indennizzo.
I vincoli espropriativi, invece, sono vincoli che incidono su beni determinati, in base alla localizzazione (lenticolare, secondo la Cassazione) di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata. Si tratta quindi di vincoli preordinati alla successiva espropriazione e soggetti a decadenza quinquennale.
La Corte costituzionale, nella sentenza 20 maggio 1999 n. 179, ha precisato che una previsione urbanistica, per poter essere considerata conformativa e non (sostanzialmente) espropriativa, deve essere tale da poter essere attuata – in concreto ed effettivamente – dal privato proprietario dell’area. Del resto sono qualificati come di carattere meramente conformativo i vincoli di destinazione che siano realizzabili ad iniziativa privata, con un coordinamento pubblico, o mista pubblico-privata.
Non comportano necessariamente l'espropriazione o la realizzazione di interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, interventi attuabili anche dal soggetto privato, a volte, sia pure mediante convenzione con il Comune, ma senza necessità della preventiva ablazione del bene.
In questa categoria (non espropriativa) possono ricadere parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cure e sanitarie. Da tale premessa la giurisprudenza ha ritenuto che “i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali), sfuggono allo schema ablatorio, con le connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa non soltanto per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo, ma anche per quelli 'sostanzialmente espropriativi' (secondo la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del precitato D.P.R. 327/2001), è anche vero che non possono essere annoverati in quest'ultima categoria, quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato (cfr., ex multis, Cons. St., IV, 28 febbraio 2005, n. 693; VI, 14 maggio 2000, n. 2934; Cass. Civ., I, 26 gennaio 2006, n. 1626 e 27 maggio 2005, n. 11322). Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che ammette la realizzazione di interventi edilizi da parte di privati, seppur conformati dal perseguimento del peculiare interesse pubblico che ha determinato il vincolo, non si risolve in una sostanziale espropriazione, ma solo in una limitazione, conforme ai principi che presiedono al corretto ed ordinario esercizio del potere pianificatorio, dell'attività edilizia realizzabile sul terreno. Questa categoria di vincoli, non avendo un contenuto sostanzialmente espropriativo, ma derivando dal riconoscimento delle caratteristiche intrinseche del bene, nell'ambito delle scelte di pianificazione generale, risulta determinata nell'esercizio della potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, per cui ha validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'articolo 11 della legge 1150/1942' (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 16 settembre 2011 n. 5216, 22 giugno 2011 n. 3797 e 1 ottobre 2017 n. 5059).

In sintesi, i vincoli espropriativi, che sono soggetti alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in funzione della localizzazione puntuale di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può quindi coesistere con la proprietà privata.
Non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. “di rispetto”, a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, in quanto tali ultime conformazioni non azzerano il contenuto del diritto di proprietà limitandosi a finalizzarlo a un interesse generale.
Solo nel caso in cui i vincoli degli strumenti urbanistici generali costituiscano vincoli espropriativi essi, ove non siano stati attuati, decadono dopo la decorrenza del termine quinquennale di cui all’art. 9 del d.p.r. n. 327 del 2001. Altrimenti, laddove si ravvisi un vincolo conformativo, esso non è sottoposto a una data finale di efficacia e non necessita di essere rideterminato.
Chiarita la natura del vincolo va ricordato che il Comune ha un forte potere discrezionale, che comporta limiti di impugnabilità di un piano urbanistico e quindi sui limiti della tutela delle aspettative edificatorie dei privati rispetto all’esercizio di poteri pianificatori ambientali e paesaggistici. In generale:
1. le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità;
2. anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione (c.d. polverizzazione della motivazione), oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione allo strumento urbanistico generale, a meno che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni;
3. con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti casi eccezionali: a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona; b) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate; c) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare; d) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo;
4. una posizione di vantaggio (derivante da una convenzione urbanistica o da un giudicato) può essere riconosciuta (e quindi essere oggetto della tutela da parte del giudice amministrativo) soltanto quando abbia ad oggetto interessi oppositivi e non invece quando si tratti di interessi pretensivi.
avv. Roberto Ollari




Notizia 12/03/2024

Lottizzazione abusiva e buona fede dell’acquirente del fondo





Abstract
I tribunali di tutt’Italia da anni si occupano di lottizzazione abusiva e, soprattutto, di confisca dei terreni o delle costruzioni su di essi realizzati.
Il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 2217 sentenza del 2 marzo 2023), si è occupato di un ricorso di un proprietario, asseritamente in buona fede, che aveva perso la proprietà del terreno per effetto di un provvedimento amministrativo conseguente ad una lottizzazione abusiva.
Il Comune, accertando una lottizzazione abusiva, aveva sospeso i lavori e, dopo 90 giorni, non avendo revocato il provvedimento, era diventato proprietario dei terreni e delle costruzioni.
Si tratta di una conseguenza analoga (perdita di proprietà) a quella che si verifica in caso di confisca (provvedimento che emette il giudice penale): nel caso esaminato dal Consiglio di Stato la giurisdizione era del Giudice amministrativo, perché era stato emesso un provvedimento dal Comune (ai sensi del Testo Unico dell’Edilizia). Più spesso è il giudice penale che confisca i terreni, giudicando sul reato di lottizzazione abusiva (art 44 lettera C del DPR 327/2001), anche se spesso non emette la sentenza di condanna (ma dichiara la prescrizione del reato).
I temi trattati dalla sentenza in commento sono però gli stessi del giudice penale e coinvolgono la definizione di lottizzazione abusiva (materiale o cartolare), il concetto di colpa del proprietario (o del terzo in buona fede che acquista dal proprietario), la necessità o meno di un accertamento della colpa, per perdere la proprietà.
***
Il caso in concreto esaminato
Al Consiglio di Stato si era rivolto il proprietario di una particella, rientrante in un’ampia area abusivamente lottizzata (per la costruzione del complesso turistico-residenziale). Con il ricorso il privato:
• contestava che si trattasse di una lottizzazione abusiva “cartolare” o “negoziale”;
• adduceva la mancanza di responsabilità nella realizzazione degli abusi, citando la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che nega la perdita di proprietà (per confisca) senza colpa e senza accertamento della “sostanziale responsabilità” (anche senza condanna penale).
Il Tar Napoli ed il Consiglio di Stato hanno rigettato il ricorso confermando i provvedimenti comunali.

I tipi di lottizzazione abusiva
Il Consiglio di Stato ( Sez. VI, sent. del 2 marzo 2023, n. 2217 e conforme Sez. VI – sentenza 19 aprile 2023 n. 3957) ha confermato che:
• la lottizzazione abusiva consiste in qualsiasi tipo di edificazione idonea in concreto a stravolgere l’assetto del territorio preesistente e a realizzare un nuovo insediamento abitativo: lo scopo della norma è eliminare un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio dell’amministrazione;
• il reato (ed illecito amministrativo) di lottizzazione abusiva può essere:
a) “materiale” tramite l’avvio non autorizzato di opere che trasformino senza titolo i terreni in zona non adeguatamente urbanizzata, in modo da aggravare il carico insediativo e, soprattutto, pregiudicare la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione. La realizzazione delle opere può essere anche solo nella fase iniziale, ma in violazione degli strumenti urbanistici;
b) “negoziale” o “cartolare”, quando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio (conforme il TAR Sicilia– Palermo, sez. II – sentenza 19 aprile 2023 n. 1285);
c) “mista”, se caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dalla norma, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5403).

L’interesse tutelato e la differenza con i meri “abusi edilizi”
L’interesse protetto è l’ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell'amministrazione, espresse nel piano urbanistico generale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2022, n. 6779).
Il discrimine, secondo la giurisprudenza, tra l’abuso edilizio e la lottizzazione abusiva è il seguente: la lottizzazione incide sull’assetto urbanistico “in modo rilevante” ossia conferendo all’area “un diverso assetto territoriale” che porti a dover realizzare o potenziare le opere di urbanizzazione.
In altre parole, per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona.
Ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile ai sensi dell'art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380 del 2001, oppure se esse siano idonee a conferire all’area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017, dep. 29/09/2017).

Nessuna valutazione atomistica è possibile
Il giudice (amministrativo o penale) osserva il Consiglio di Stato, deve accertare le opere non “atomisticamente”, ma nel complesso per valutare se siano idonee a stravolgere l’assetto del territorio. È necessaria una valutazione globale delle stesse ed i singoli interventi devono essere considerati nel loro quadro di insieme, evidenziando il nesso funzionale che li accomuna e l'effettiva portata dell'operazione (Cassazione penale, Sez. III, 14 ottobre 2020, n. 28495).
Per tale motivo non vi è difetto di istruttoria se l’amministrazione valuta le posizioni dei singoli accomunandole nell’ambito di un unico provvedimento deriva, non già da un difetto di istruttoria, ma proprio dalla natura unitaria della fattispecie della lottizzazione abusiva.
Il bene giuridico protetto dalla predetta norma, quindi, non è solo quello dell'ordinata pianificazione urbanistica e del corretto uso del territorio, ma anche (e soprattutto) quello dell'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della relativa funzione, cui spetta di vigilare sul rispetto delle vigenti prescrizioni urbanistiche, con conseguente legittima repressione di qualsiasi intervento di tipo lottizzatorio non previamente assentito (Consiglio Stato, Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 2937).
Nella sentenza in commento, il tema della accertamento dell’abuso era relativamente semplice, in quanto a carico del ricorrente esistevano sentenze penali che accertavano la lottizzazione abusiva mista. Nel caso esaminato vi era stato un intreccio di attività giuridiche e materiali, caratterizzate da progressivi atti di frazionamento realizzati e cessioni di terreni che hanno determinato una trasformazione dell’assetto urbanistico del territorio all’interno di un’area di vaste dimensioni, a seguito della realizzazione di attività edificatoria su diversi dei lotti frazionati (strade, parcheggi, aree di ricreazione, piscine, edifici realizzati a scopo turistico ricettivo e residenziale).

La colpa secondo le norma italiane
Secondo il Consiglio di Stato (che esamina la vicenda ai fini amministrativi e non penali) “la lottizzazione abusiva”, operando in modo oggettivo ed indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, differentemente dell'abuso edilizio, presuppone un insieme di opere o di atti giuridici, comportanti una trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni a scopo edificatorio, da intendere come conferimento all'area di un diverso assetto territoriale” (così, ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 14 giugno 2021, n. 4627). In conseguenza di questo principio (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2022), risulta irrilevante “ai fini del decidere la circostanza per cui la parte non sarebbe responsabile [...] atteso che l'acquirente del fondo abusivamente lottizzato concorrerebbe comunque con la propria condotta ad assicurare la protrazione degli effetti lesivi dall'illecito in concreto commesso, in tale modo rispondendone ai fini amministrativi”.
In questo modo, il Giudice amministrativo aderisce alla tesi più rigorosa, che richiede, per perdere la proprietà di un fondo o edificio appartenente ad una lottizzazione abusiva, che il privato con la propria condotta si sia anche solo limitato ad assicurare la protrazione degli effetti lesivi dall'illecito in concreto commesso.
Ma il giudice amministrativo esamina anche la tesi meno rigorosa, di derivazione euro unitaria (CEDU), ma ritiene che le conclusioni non mutano (nel caso di specie) aderendo all'indirizzo giurisprudenziale maggiormente propenso ad esaminare la situazione di buona fede dell'acquirente del fondo abusivamente lottizzato. Secondo i principi imposti dalla CEDU serve almeno la colpa, per perdere la proprietà, sia da parte del proprietario lottizzante, sia da parte del terzo in buona fede che acquista in seconda battuta il bene.
Secondo tale orientamento europeista è comunque necessaria la mancanza di colpa per mantenere il bene, che si può dimostrare solo avendo operato con la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un'operazione di illecita utilizzazione del territorio e di aver, comunque, posto in essere ogni tempestiva azione di contrasto (Consiglio di Stato, Sez. II, 2 novembre 2020, n. 6762).
Nel caso concreto, il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 2217 sentenza del 2 marzo 2023), aveva agli atti sia condanne penali, sia un comunale completa, che avevano dimostrato che il ricorrente difettava della “buona fede”, intesa come assenza di colpa, come sopra definita.

La colpa secondo le norme europee (CEDU)
Il ricorrente invocava avanti al Consiglio di Stato anche la violazione della normativa sovranazionale a tutela del diritto di proprietà, che il giudice amministrativo cita attraverso la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cassazione penale, Sez. III, 3 ottobre 2019, n.7756) che ha tradotto i principi europei (Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia).
Secondo tale interpretazione assume rilievo anche l’aspetto dell’individuazione dei beni, nel senso che il provvedimento ablatorio è legittimo se limitato ai beni immobili direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali.
Secondo il Consiglio di Stato è conforme al principio di protezione della proprietà di cui al citato art. 1 del Prot. n. 1 CEDU (come interpretato dalla richiamata pronuncia Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia), la confisca di tutta l’area oggetto della lottizzazione, compresi gli edifici sulla stessa realizzati, laddove la complessiva operazione edilizia realizzata abbia determinato il completo stravolgimento della destinazione urbanistica dei terreni, modificandola.
La sentenza è una delle tante che declina i principi europei “all’italiana”, forzando sempre più i concetti, per sopperire alle tante carenze (prescrizione e complessità delle questioni), per mantenere il “governo del territorio”.
avv. Roberto Ollari




Notizia 12/03/2024

Una rotonda sul mare…: commento a Cons. Stato sez. IV 4.9.23 n. 8150





Abstract:
Titolo edilizio ed autorizzazione paesistica operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi
La mancata preventiva acquisizione della autorizzazione paesaggistica, di cui all'art. 146 d.lgs. n. 42/2004, incide sull'efficacia, non sulla legittimità, del titolo edilizio: solamente non si possono iniziare i lavori.
commento
Una rotonda sul mare…, diceva una nota canzone, celebrando l’amore ed una magnifica location.
Il Consiglio di Stato (sez. IV 4.9.23 n. 8150), non in musica, ma ha per ora salvato, non una rotonda, ma uno di quei bellissimi tappeti in legno disposti sopra le rocce, che spesso di troviamo in Puglia.
Più precisamente oggetto del giudizio era la possibilità di realizzare un “tavolato ligneo di facile rimozione da destinare a stabilimento balneare ed elioterapico ad uso pubblico, con annessi servizi, in corrispondenza di scogliera sita in loc. Capo d'Orlando”
Spoilerando il finale, visto che non è un film giallo, il provvedimento negativo della Soprintendenza è stato annullato.
Il Consiglio di Stato ha però puntualizzato interessanti principi, ribaditi con particolare efficacia e capacità di sintesi.
Punto primo: anche senza concessione demaniale si puo’ chiedere l’autorizzazione paesistica, per accelerare le possibili procedure (i successivi lavori, per ora inibiti).
La sentenza in commento (4.9.2023 n. 8150) ha escluso che il tema “rinnovo” concessione demaniale potesse avere rilievo; infatti, l’appellante non aveva più (e non aveva ancora) un titolo per la disponibilità del bene sul quale intendeva realizzare l'opera (la concessione demaniale). Secondo i Giudici la mancanza della concessione demaniale non ostacola il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, trattandosi di procedimenti tra loro del tutto autonomi e indipendenti.
La pendenza del procedimento di concessione demaniale non può essere determinante ai fini del diniego medesimo atteso che il permesso di costruire potrebbe essere rilasciato ma non avrebbe efficacia in pendenza dell'istanza di autorizzazione paesaggistica.
Punto secondo: la Soprintendenza deve sempre adeguatamente motivare; nel caso concreto aveva emesso un provvedimento privo della adeguata istruttoria (affermava circostanza smentite dalle foto prodotte) e la difesa in giudizio era stata inefficace.
Va segnalato che sul punto (cioè dei doveri della Soprintendenza) è stato ribadito che nel processo amministrativo anche la discrezionalità tecnica - come è quella espressa dalla Sovrintendenza - è suscettibile di sindacato da parte del giudice amministrativo, laddove emerga la carenza di istruttoria.
E’ importante questa precisazione, perché spesso le amministrazioni sostengono (ingiustamente) che si sindaca il merito del provvedimento; non è così, quando si chiede di verificare se queste scelte siano assistite da una loro intrinseca coerenza e dalla conseguente attendibilità.
Ma il punto di maggior interesse è l’ultimo.
Punto terzo: l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo rispetto agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
I due atti di assenso (paesaggistico e edilizio), operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, 3 maggio 2022, n. 3446).
Ne deriva che la mancata preventiva acquisizione della autorizzazione paesaggistica, di cui all'art. 146 d.lgs. n. 42/2004, incide sull'efficacia, non sulla legittimità, del titolo edilizio; la norma dispone infatti che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
L'autorizzazione paesaggistica (annullata dal Consiglio di Stato) si atteggia alla stregua di una condizione di efficacia, con la conseguenza che i lavori non possono essere iniziati, finché non intervenga il parere della Sovrintendenza (cfr. C.d.S., Sez. IV, 11 aprile 2023, n. 3638), parere rispetto al quale l'amministrazione comunale ha solo un potere di conformazione.
Nel caso in questione, pertanto, la Soprintendenza dovrà adeguatamente motivare, emettendo il nuovo parere pesistico, mentre il Comune si dovrà adeguare e, nel caso sia ente comunale che ministeriale acconsentano, il privato potrà realizzare il suo bel tappeto ligneo sugli scogli.
Ma solo se avrà la concessione demaniale. Ma come quel film (Irma la dolce) …quella è un’altra storia !
avv. Roberto Ollari




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