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12/03/2024
Abstract
I tribunali di tutt’Italia da anni si occupano di lottizzazione abusiva e, soprattutto, di confisca dei terreni o delle costruzioni su di essi realizzati.
Il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 2217 sentenza del 2 marzo 2023), si è occupato di un ricorso di un proprietario, asseritamente in buona fede, che aveva perso la proprietà del terreno per effetto di un provvedimento amministrativo conseguente ad una lottizzazione abusiva.
Il Comune, accertando una lottizzazione abusiva, aveva sospeso i lavori e, dopo 90 giorni, non avendo revocato il provvedimento, era diventato proprietario dei terreni e delle costruzioni.
Si tratta di una conseguenza analoga (perdita di proprietà) a quella che si verifica in caso di confisca (provvedimento che emette il giudice penale): nel caso esaminato dal Consiglio di Stato la giurisdizione era del Giudice amministrativo, perché era stato emesso un provvedimento dal Comune (ai sensi del Testo Unico dell’Edilizia). Più spesso è il giudice penale che confisca i terreni, giudicando sul reato di lottizzazione abusiva (art 44 lettera C del DPR 327/2001), anche se spesso non emette la sentenza di condanna (ma dichiara la prescrizione del reato).
I temi trattati dalla sentenza in commento sono però gli stessi del giudice penale e coinvolgono la definizione di lottizzazione abusiva (materiale o cartolare), il concetto di colpa del proprietario (o del terzo in buona fede che acquista dal proprietario), la necessità o meno di un accertamento della colpa, per perdere la proprietà.
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Il caso in concreto esaminato
Al Consiglio di Stato si era rivolto il proprietario di una particella, rientrante in un’ampia area abusivamente lottizzata (per la costruzione del complesso turistico-residenziale). Con il ricorso il privato:
• contestava che si trattasse di una lottizzazione abusiva “cartolare” o “negoziale”;
• adduceva la mancanza di responsabilità nella realizzazione degli abusi, citando la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che nega la perdita di proprietà (per confisca) senza colpa e senza accertamento della “sostanziale responsabilità” (anche senza condanna penale).
Il Tar Napoli ed il Consiglio di Stato hanno rigettato il ricorso confermando i provvedimenti comunali.
I tipi di lottizzazione abusiva
Il Consiglio di Stato ( Sez. VI, sent. del 2 marzo 2023, n. 2217 e conforme Sez. VI – sentenza 19 aprile 2023 n. 3957) ha confermato che:
• la lottizzazione abusiva consiste in qualsiasi tipo di edificazione idonea in concreto a stravolgere l’assetto del territorio preesistente e a realizzare un nuovo insediamento abitativo: lo scopo della norma è eliminare un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio dell’amministrazione;
• il reato (ed illecito amministrativo) di lottizzazione abusiva può essere:
a) “materiale” tramite l’avvio non autorizzato di opere che trasformino senza titolo i terreni in zona non adeguatamente urbanizzata, in modo da aggravare il carico insediativo e, soprattutto, pregiudicare la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione. La realizzazione delle opere può essere anche solo nella fase iniziale, ma in violazione degli strumenti urbanistici;
b) “negoziale” o “cartolare”, quando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio (conforme il TAR Sicilia– Palermo, sez. II – sentenza 19 aprile 2023 n. 1285);
c) “mista”, se caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dalla norma, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5403).
L’interesse tutelato e la differenza con i meri “abusi edilizi”
L’interesse protetto è l’ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell'amministrazione, espresse nel piano urbanistico generale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2022, n. 6779).
Il discrimine, secondo la giurisprudenza, tra l’abuso edilizio e la lottizzazione abusiva è il seguente: la lottizzazione incide sull’assetto urbanistico “in modo rilevante” ossia conferendo all’area “un diverso assetto territoriale” che porti a dover realizzare o potenziare le opere di urbanizzazione.
In altre parole, per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona.
Ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile ai sensi dell'art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380 del 2001, oppure se esse siano idonee a conferire all’area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017, dep. 29/09/2017).
Nessuna valutazione atomistica è possibile
Il giudice (amministrativo o penale) osserva il Consiglio di Stato, deve accertare le opere non “atomisticamente”, ma nel complesso per valutare se siano idonee a stravolgere l’assetto del territorio. È necessaria una valutazione globale delle stesse ed i singoli interventi devono essere considerati nel loro quadro di insieme, evidenziando il nesso funzionale che li accomuna e l'effettiva portata dell'operazione (Cassazione penale, Sez. III, 14 ottobre 2020, n. 28495).
Per tale motivo non vi è difetto di istruttoria se l’amministrazione valuta le posizioni dei singoli accomunandole nell’ambito di un unico provvedimento deriva, non già da un difetto di istruttoria, ma proprio dalla natura unitaria della fattispecie della lottizzazione abusiva.
Il bene giuridico protetto dalla predetta norma, quindi, non è solo quello dell'ordinata pianificazione urbanistica e del corretto uso del territorio, ma anche (e soprattutto) quello dell'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della relativa funzione, cui spetta di vigilare sul rispetto delle vigenti prescrizioni urbanistiche, con conseguente legittima repressione di qualsiasi intervento di tipo lottizzatorio non previamente assentito (Consiglio Stato, Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 2937).
Nella sentenza in commento, il tema della accertamento dell’abuso era relativamente semplice, in quanto a carico del ricorrente esistevano sentenze penali che accertavano la lottizzazione abusiva mista. Nel caso esaminato vi era stato un intreccio di attività giuridiche e materiali, caratterizzate da progressivi atti di frazionamento realizzati e cessioni di terreni che hanno determinato una trasformazione dell’assetto urbanistico del territorio all’interno di un’area di vaste dimensioni, a seguito della realizzazione di attività edificatoria su diversi dei lotti frazionati (strade, parcheggi, aree di ricreazione, piscine, edifici realizzati a scopo turistico ricettivo e residenziale).
La colpa secondo le norma italiane
Secondo il Consiglio di Stato (che esamina la vicenda ai fini amministrativi e non penali) “la lottizzazione abusiva”, operando in modo oggettivo ed indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, differentemente dell'abuso edilizio, presuppone un insieme di opere o di atti giuridici, comportanti una trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni a scopo edificatorio, da intendere come conferimento all'area di un diverso assetto territoriale” (così, ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 14 giugno 2021, n. 4627). In conseguenza di questo principio (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2022), risulta irrilevante “ai fini del decidere la circostanza per cui la parte non sarebbe responsabile [...] atteso che l'acquirente del fondo abusivamente lottizzato concorrerebbe comunque con la propria condotta ad assicurare la protrazione degli effetti lesivi dall'illecito in concreto commesso, in tale modo rispondendone ai fini amministrativi”.
In questo modo, il Giudice amministrativo aderisce alla tesi più rigorosa, che richiede, per perdere la proprietà di un fondo o edificio appartenente ad una lottizzazione abusiva, che il privato con la propria condotta si sia anche solo limitato ad assicurare la protrazione degli effetti lesivi dall'illecito in concreto commesso.
Ma il giudice amministrativo esamina anche la tesi meno rigorosa, di derivazione euro unitaria (CEDU), ma ritiene che le conclusioni non mutano (nel caso di specie) aderendo all'indirizzo giurisprudenziale maggiormente propenso ad esaminare la situazione di buona fede dell'acquirente del fondo abusivamente lottizzato. Secondo i principi imposti dalla CEDU serve almeno la colpa, per perdere la proprietà, sia da parte del proprietario lottizzante, sia da parte del terzo in buona fede che acquista in seconda battuta il bene.
Secondo tale orientamento europeista è comunque necessaria la mancanza di colpa per mantenere il bene, che si può dimostrare solo avendo operato con la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un'operazione di illecita utilizzazione del territorio e di aver, comunque, posto in essere ogni tempestiva azione di contrasto (Consiglio di Stato, Sez. II, 2 novembre 2020, n. 6762).
Nel caso concreto, il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 2217 sentenza del 2 marzo 2023), aveva agli atti sia condanne penali, sia un comunale completa, che avevano dimostrato che il ricorrente difettava della “buona fede”, intesa come assenza di colpa, come sopra definita.
La colpa secondo le norme europee (CEDU)
Il ricorrente invocava avanti al Consiglio di Stato anche la violazione della normativa sovranazionale a tutela del diritto di proprietà, che il giudice amministrativo cita attraverso la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cassazione penale, Sez. III, 3 ottobre 2019, n.7756) che ha tradotto i principi europei (Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia).
Secondo tale interpretazione assume rilievo anche l’aspetto dell’individuazione dei beni, nel senso che il provvedimento ablatorio è legittimo se limitato ai beni immobili direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali.
Secondo il Consiglio di Stato è conforme al principio di protezione della proprietà di cui al citato art. 1 del Prot. n. 1 CEDU (come interpretato dalla richiamata pronuncia Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia), la confisca di tutta l’area oggetto della lottizzazione, compresi gli edifici sulla stessa realizzati, laddove la complessiva operazione edilizia realizzata abbia determinato il completo stravolgimento della destinazione urbanistica dei terreni, modificandola.
La sentenza è una delle tante che declina i principi europei “all’italiana”, forzando sempre più i concetti, per sopperire alle tante carenze (prescrizione e complessità delle questioni), per mantenere il “governo del territorio”.
avv. Roberto Ollari
12/03/2024
Abstract:
Titolo edilizio ed autorizzazione paesistica operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi
La mancata preventiva acquisizione della autorizzazione paesaggistica, di cui all'art. 146 d.lgs. n. 42/2004, incide sull'efficacia, non sulla legittimità, del titolo edilizio: solamente non si possono iniziare i lavori.
commento
Una rotonda sul mare…, diceva una nota canzone, celebrando l’amore ed una magnifica location.
Il Consiglio di Stato (sez. IV 4.9.23 n. 8150), non in musica, ma ha per ora salvato, non una rotonda, ma uno di quei bellissimi tappeti in legno disposti sopra le rocce, che spesso di troviamo in Puglia.
Più precisamente oggetto del giudizio era la possibilità di realizzare un “tavolato ligneo di facile rimozione da destinare a stabilimento balneare ed elioterapico ad uso pubblico, con annessi servizi, in corrispondenza di scogliera sita in loc. Capo d'Orlando”
Spoilerando il finale, visto che non è un film giallo, il provvedimento negativo della Soprintendenza è stato annullato.
Il Consiglio di Stato ha però puntualizzato interessanti principi, ribaditi con particolare efficacia e capacità di sintesi.
Punto primo: anche senza concessione demaniale si puo’ chiedere l’autorizzazione paesistica, per accelerare le possibili procedure (i successivi lavori, per ora inibiti).
La sentenza in commento (4.9.2023 n. 8150) ha escluso che il tema “rinnovo” concessione demaniale potesse avere rilievo; infatti, l’appellante non aveva più (e non aveva ancora) un titolo per la disponibilità del bene sul quale intendeva realizzare l'opera (la concessione demaniale). Secondo i Giudici la mancanza della concessione demaniale non ostacola il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, trattandosi di procedimenti tra loro del tutto autonomi e indipendenti.
La pendenza del procedimento di concessione demaniale non può essere determinante ai fini del diniego medesimo atteso che il permesso di costruire potrebbe essere rilasciato ma non avrebbe efficacia in pendenza dell'istanza di autorizzazione paesaggistica.
Punto secondo: la Soprintendenza deve sempre adeguatamente motivare; nel caso concreto aveva emesso un provvedimento privo della adeguata istruttoria (affermava circostanza smentite dalle foto prodotte) e la difesa in giudizio era stata inefficace.
Va segnalato che sul punto (cioè dei doveri della Soprintendenza) è stato ribadito che nel processo amministrativo anche la discrezionalità tecnica - come è quella espressa dalla Sovrintendenza - è suscettibile di sindacato da parte del giudice amministrativo, laddove emerga la carenza di istruttoria.
E’ importante questa precisazione, perché spesso le amministrazioni sostengono (ingiustamente) che si sindaca il merito del provvedimento; non è così, quando si chiede di verificare se queste scelte siano assistite da una loro intrinseca coerenza e dalla conseguente attendibilità.
Ma il punto di maggior interesse è l’ultimo.
Punto terzo: l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo rispetto agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
I due atti di assenso (paesaggistico e edilizio), operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, 3 maggio 2022, n. 3446).
Ne deriva che la mancata preventiva acquisizione della autorizzazione paesaggistica, di cui all'art. 146 d.lgs. n. 42/2004, incide sull'efficacia, non sulla legittimità, del titolo edilizio; la norma dispone infatti che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
L'autorizzazione paesaggistica (annullata dal Consiglio di Stato) si atteggia alla stregua di una condizione di efficacia, con la conseguenza che i lavori non possono essere iniziati, finché non intervenga il parere della Sovrintendenza (cfr. C.d.S., Sez. IV, 11 aprile 2023, n. 3638), parere rispetto al quale l'amministrazione comunale ha solo un potere di conformazione.
Nel caso in questione, pertanto, la Soprintendenza dovrà adeguatamente motivare, emettendo il nuovo parere pesistico, mentre il Comune si dovrà adeguare e, nel caso sia ente comunale che ministeriale acconsentano, il privato potrà realizzare il suo bel tappeto ligneo sugli scogli.
Ma solo se avrà la concessione demaniale. Ma come quel film (Irma la dolce) …quella è un’altra storia !
avv. Roberto Ollari
12/03/2024
Abstract
La tutela del legittimo affidamento rispetto all’esercizio dei poteri di pianificazione viene effettuata attraverso l’obbligo di motivazione di quelle scelte dello strumento urbanistico che costituiscono “casi specifici”. In questo caso, l’obbligo di (puntuale) motivazione costituisce il “punto di equilibrio” per salvaguardare l’affidamento legittimamente configuratosi in capo al privato. Tuttavia, la tutela del legittimo affidamento del proprietario non può declinarsi come preclusione al pieno dispiegarsi del potere di pianificazione urbanistica.
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Sant’Agostino si interrogava su cosa fosse il tempo. Il Consiglio di Stato, più modestamente, offre una ampia, argomentata e convincente definizione dell’affidamento del privato verso l’amministrazione, in materia urbanistica.
Il Consiglio di Stato (sez. IV 18.12.23 n. 10976), come il Jack del Titanic, spiega quando Rose si può abbandonare all’indietro, facendo affidamento sul fatto di non cadere.
Il fatto concreto: dopo aver pagato 175 milioni di euro un immobile, acquistato con procedura ad evidenza pubblica dal Comune di Milano, la società proprietaria dopo poco tempo vede che il Comune cambia il piano urbanistico (PGT), in modo da svalutare i beni acquistati.
Il Nuovo PGT (2019), infatti, non individua tale immobile tra quelli (indicati in una apposita carta) cui è consentito applicare la normativa urbanistica precedente. Per tale motivo (mancata applicazione della normativa precedente) non è più valido il valore dell’immobile, il c.d. Pirellino, composto da due immobili di 25 e 7 piani oltre agli interrati. Va precisato che il valore di acquisto del bene ex comunale era stato calcolato sulle possibilità di sviluppo della normativa del PGT precedente (2012) che aveva indotto la società a spendere 175 milioni di euro per l’acquisto. Tale valore era stato tradotto in una stima che aveva preceduto la vendita dal Comune al privato.
L’appello argomenta l’illegittimità della scelta pianificatoria, facendo leva sul legittimo affidamento che sarebbe maturato in considerazione di una serie di concomitanti circostanze verificatesi nel corso della vicenda amministrativa.
Il quesito che il Giudice ha dovuto risolvere è il seguente: esiste un affidamento del privato -in un caso come questo di vendita dall’amministrazione al privato- a che le norme non vengano cambiate dal PGT, benché non ci sia una convenzione urbanistica firmata (caso classico di affidamento tutelato da un onere dell’amministrazione di motivazione “rafforzata”)?
Il Consiglio di Stato, esaminato il caso molto particolare, afferma esistere un affidamento del privato ed annulla il PGT (nella parte limitata al caso di specie), imponendo un obbligo di motivazione rafforzata al nuovo esercizio del potere amministrativo, ma soprattutto tracciando i confini del concetto di “legittimo affidamento” in materia urbanistica, dove la discrezionalità dell’amministrazione è amplissima.
La fiducia è…
Leggendo le sentenze come si fa con i bigliettini dei “Baci Perugina”, si impara che per fiducia/affidamento si intende:
1. una “buona fede ragionevolmente riposta”. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, l’affidamento costituisce un “principio regolatore di ogni rapporto giuridico”, compresi quelli di diritto amministrativo (Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021 n. 20, §. 6), “che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all'esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull'esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata.” (Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021 n. 20, §. 5; nella sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021 n. 19, §. 11).
2. ma anche il “convincimento ragionevole” della spettanza di un bene della vita (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 20 del 2021, §. 17, ribadita da Cons. Stato, sez. IV, 31 luglio 2023 n. 7406, §. 2.3.2.).
3. o, ancora, “l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito” dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, Ad. plen., n. 19 del 2021, §. 11, che richiama il decisum di Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011);
4. infine l' 'aspettativa del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo rilasciato”, che se frustrata può essere fonte di responsabilità della prima” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 20 del 2021, §. 6).
I limiti all’affidamento
L’affidamento del privato si configura in ragione del convincimento ragionevole del legittimo esercizio del potere pubblico e del convincimento ragionevole dell’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, individuandosi in ciò il duplice parametro “al quale ancorare” “la fiducia”, “il convincimento” o “l’aspettativa” del privato (così, Cons. Stato, Ad. plen. n. 19 del 2021, §. 14).
Ma, di contro, vi sono i poteri attribuiti all’amministrazione che creano dei “limiti fisiologici” alla tutela dell’affidamento, riconducibili alle caratteristiche del rapporto amministrativo ed alla esigenza di proteggere anche altri principi ritenuti pari-ordinati o superiori alle aspettative di profitto dei singoli. La sentenza riporta numerosi esempi.
Proprio la materia della pianificazione urbanistica e l’esercizio dei relativi poteri da parte delle amministrazioni territoriali e locali coinvolte, hanno costituito un “banco di prova” della tutela del principio e dei suoi limiti.
In sintesi, questo 'bilanciamento” ha trovato origine nell’Adunanza plenaria n. 24 del 1999, i cui principi sono stati rilevanti per la decisione della controversia, risultano ancora attuali e seguiti dalle più recenti sentenze di questa Sezione (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno 2023, n. 5799; 10 maggio 2023, n. 4749; 05 agosto 2022, n. 6952; 10 febbraio 2022, n. 963).
La pronuncia citata ha affermato, in primo luogo, che il provvedimento di approvazione del piano regolatore generale o di una sua variante generale compartecipano della natura di atto generale e di atto normativo “nel quale le scelte urbanistiche di carattere generale non devono, di massima, essere sorrette da altra motivazione oltre quella che è dato evincere dall’esame dei criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione del piano”. Questa è la regola generale.
I casi di legittimo affidamento
Esiste l’eccezione alla regola. L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 24 del 1999, ha affermato che in determinate occasioni anche lo strumento urbanistico generale richiede una “motivazione specifica di certe scelte” e ha individuato nell’ambito della casistica in cui questo avviene le “ipotesi nelle quali vi è un affidamento qualificato del privato”.
I casi “classici” di affidamento del privato (tutelati dalla giurisprudenza) sono:
1) le ipotesi di precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree,
2) il caso del privato che abbia ottenuto un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o di un silenzio-rifiuto su una domanda edilizia, in ordine alla pretesa di variante di nuove previsioni urbanistiche rilevanti in quanto sopravvenute nel corso del giudizio (dandosi continuità, così, ai principi enunciati da Cons. Stato, Ad. plen., 8 gennaio 1986, n. 1).
La tutela del legittimo affidamento rispetto all’esercizio dei poteri di pianificazione viene effettuata attraverso l’obbligo di motivazione di quelle scelte dello strumento urbanistico che costituiscono “casi specifici”.
Il caso del “Pirellino”
Nel caso concreto, non vi erano le due ipotesi “classiche” di affidamento (convenzione urbanistica o giudicato di annullamento del diniego del titolo edilizio).
Tuttavia, la sentenza (Cons. Stato sez. IV 18.12.23 n. 10976) ha valutato a favore del privato appellante le seguenti circostanze:
1. la circostanza che lo svolgimento del procedimento di alienazione dell’immobile è stato effettuato sul presupposto dell’applicazione della disciplina del PGT 2012, che si è riflessa in atti fondamentali del procedimento di vendita, quali, in particolare, il bando che ha dato avvio al procedimento di alienazione e la stima del valore economico del bene, effettuata nell’anno 2013 e nell’anno 2018 dall’Agenzia delle Entrate, che, verosimilmente, hanno influenzato la volontà contrattuale dell’acquirente.
2. la conclusione di un contratto di vendita di un bene comunale che, al tempo della stipulazione, aveva una più favorevole disciplina urbanistica, mentre, subito dopo, ha visto mutata quella disciplina in senso deteriore, per l’effetto dell’attività pianificatoria del medesimo ente locale, il quale aveva però impostato le trattative sul presupposto del più favorevole regime urbanistico.
3. la compresenza, nel medesimo arco temporale, di due procedimenti amministrativi (vendita al privato e approvazione del PGT) portati avanti dal medesimo ente sul medesimo bene. La tendenziale sincronia dei procedimenti, la loro riferibilità alla medesima amministrazione procedente, le caratteristiche concrete del bene, di ingente valore economico e di preclaro rilievo urbanistico, costituiscono elementi che possono ragionevolmente aver indotto l’acquirente a confidare sulla stabilità dei presupposti caratterizzanti le trattative e sulla “coerenza” fra la precedente disciplina urbanistica e quella successiva.
L’affidamento del privato può considerarsi sorto e qualificabile come “legittimo”, in quanto maturato in presenza di una serie di concomitanti circostanze che si reputano idonee a far sorgere e consolidare “la fiducia”, “il convincimento”, “l’aspettativa” del privato sulla persistenza di quel regime urbanistico (PGT 2012) che disciplinava il compendio immobiliare in concomitanza con le “operazioni di vendita”.
La “salomonica” decisione
Il Consiglio di Stato ha così stabilito che può dirsi sussistente la situazione di legittimo affidamento del privato e, conseguentemente, ha dichiarato l’illegittimità della delibera di approvazione del PGT nella misura in cui questi atti non enunciano una motivazione specifica relativa alla scelta di pianificazione di mancata inclusione del bene tra quelli che fruiscono della disciplina precedente (PGT 2012).
In questo caso, l’obbligo di (puntuale) motivazione costituisce il “punto di equilibrio” per salvaguardare l’affidamento legittimamente configuratosi in capo al privato titolare dell’interesse legittimo proprietario e l’attribuzione del potere di pianificazione dell’amministrazione da parte dell’ordinamento. Per converso, contrariamente a quanto sostenuto dalla società appellante, la tutela del legittimo affidamento del proprietario non può declinarsi come preclusione al pieno dispiegarsi del potere di pianificazione urbanistica.
Dal Consiglio di Stato un monito alla possibile “ubris” (superbia) del pianificatore, ricordandogli che– come per l’ Uomo Ragno”- a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità.
avv. Roberto Ollari
12/05/2020
Sommario: 1. Introduzione. 2. La causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. quale motivo di archiviazione. 3. L’archiviazione per particolare tenuità del fatto nell’ambito dei reati edilizi. 4. Le conseguenze del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto. 4.1. La questione dell’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale. 4.2. Gli effetti del provvedimento di archiviazione sui procedimenti e processi amministrativi. 5. Conclusione.
1. Introduzione
L’art. 131 bis c.p. disciplina una causa di non punibilità introdotta nel nostro ordinamento solo nel 2015: la particolare tenuità del fatto. Tale istituto, volto a soddisfare esigenze di alleggerimento del carico giudiziario e di rispetto del principio di proporzione, è oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale, che si incentra, in particolare, sull’individuazione dei parametri che consentono di ritenere l’offesa “di particolare tenuità”.
Da un punto di vista processuale, la declaratoria di non punibilità ex art. 131 bis c.p. può avvenire dopo l’esercizio dell’azione penale ed essere dunque contenuta in sentenze.
La non punibilità per particolare tenuità del fatto può, tuttavia, essere pronunciata anche in un momento antecedente all’esercizio dell’azione penale. Nel corso delle indagini preliminari il Pubblico Ministero può, infatti, richiedere l’archiviazione in ragione della tenuità dell’offesa, richiesta sulla quale è chiamato a pronunciarsi, con ordinanza o decreto, il Giudice per le indagini preliminari.
Questo contributo si incentrerà sull’analisi di questo secondo caso, cercando di mettere in luce le conseguenze derivanti dalla pronuncia di un provvedimento di archiviazione ex art. 131 bis c.p., avendo riguardo, in particolare, alla tematica dell’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale ed agli effetti sui procedimenti e processi amministrativi vertenti sui medesimi fatti.
L’analisi verrà condotta con specifico riferimento all’applicazione della nuova causa di non punibilità ad una particolare classe di reati, quelli di natura edilizia.
La prassi evidenzia, infatti, un sempre maggiore ricorso alla particolare tenuità del fatto quale motivo di archiviazione, qualora vengano in rilievo abusi “minori”.
Si cercherà, pertanto, di evidenziare, nell’ambito dei reati edilizi, quali siano gli elementi ed i parametri individuati dalla giurisprudenza ai fini della valutazione sull’applicabilità dell’art. 131 bis c.p.
2. La causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. quale motivo di archiviazione
Il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova causa di non punibilità rispondente alla concezione gradualistica del reato e ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità del diritto penale: la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.
Come sancito dal I comma della disposizione codicistica, l’applicazione dell’istituto è limitata ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena.
Oltre al rispetto dei limiti edittali indicati sopra, la possibilità di applicare la particolare tenuità del fatto è, altresì, subordinata alla esistenza di una offesa particolarmente lieve, avendo riguardo alle modalità della condotta e all'entità del danno o del pericolo.
Il I comma dell’art. 131 bis c.p. specifica ulteriormente gli elementi che il Giudice deve tenere in considerazione per la valutazione di particolare tenuità del fatto, operando un richiamo a quanto previsto dall’art. 133, c.1 c.p.: si tratta della natura, la specie, i mezzi, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione (art. 133, comma 1, n. 1); dell’esiguità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato (art. 133, comma 1, n. 2); dell’intensità del dolo o del grado della colpa (art. 133, comma 1, n. 3).
La nuova causa di non punibilità esige, inoltre, che non vi sia abitualità del comportamento. A tal proposito l'art. 131-bis, comma 3, specifica che il comportamento è da ritenersi “abituale” nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.
E’ necessario ora esaminare gli aspetti processuali di tale causa di non punibilità.
La particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis c.p., è rilevabile d'ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio e la sua declaratoria può dare luogo ad una pluralità di provvedimenti: la sentenza di non luogo a procedere (art. 420 c.p.p.), il proscioglimento predibattimentale (art. 469 c.p.p.), nonché la sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.).
Nei casi sopra indicati la declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto viene dunque effettuata dopo l’esercizio dell’azione penale ed è contenuta in sentenze pronunciate dal Giudice.
La non punibilità ex art. 131 bis c.p. può essere altresì pronunciata già nel corso delle indagini preliminari ed è proprio questo secondo caso l’oggetto specifico del presente contributo.
La declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto pronunciata prima dell’esercizio dell’azione penale spetta al Giudice per le indagini preliminari, che provvede con ordinanza o decreto di archiviazione.
Il provvedimento di archiviazione viene adottato su richiesta del pubblico ministero, secondo il disposto di cui all’art. 411 c.p.p., rubricato “Altri casi di archiviazione”. Tale norma inserisce, infatti, la particolare tenuità del fatto tra le ipotesi implicanti la presentazione di una richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero.
Il comma 1-bis dell’art. 411 c.p.p. delinea invece la disciplina conseguente alla presentazione della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, introducendo, a tutela della persona offesa e di quella sottoposta alle indagini, la possibilità di presentare opposizione. Si tratta di una disciplina peculiare e specifica per l’ipotesi di richiesta di archiviazione ex art. 131 bis c.p., che si differenzia in parte dalla procedura relativa alle “normali” richieste di archiviazione.
In particolare, si prevede che il Pubblico Ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, precisando che, nel termine di dieci giorni, tali soggetti possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta.
Se viene presentata opposizione e questa non è inammissibile, il Giudice procede ai sensi dell’articolo 409, comma 2, c.p.p. e, dopo avere sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza.
In mancanza di opposizione o quando questa è inammissibile, il Giudice procede senza formalità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato.
Nei casi in cui non accoglie la richiesta, il Giudice restituisce gli atti al Pubblico Ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’articolo 409, commi 4 e 5 c.p.p.
Appare dunque evidente una fondamentale differenza con la disciplina della “normale” richiesta di archiviazione: mentre quest’ultima va notificata solamente alla persona offesa, per consentirne l’opposizione, la richiesta di archiviazione motivata dalla particolare tenuità del fatto va notificata anche alla persona indagata e consente anche alla stessa la possibilità di opporsi.
La ragione di questa scelta risiede nel fatto che l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, pur essendo una misura favorevole all’indagato, comportando la chiusura delle indagini, non è, tuttavia, completamente priva di conseguenze negative.
Come si vedrà meglio in seguito, l’archiviazione ex art. 131 bis c.p. costituisce comunque una “macchia” nella sfera giuridica del soggetto indagato, in quanto, come di recente chiarito dalle Sezioni Unite, il provvedimento viene iscritto all’interno del casellario giudiziale. L’indagato può dunque presentare opposizione alla richiesta di archiviazione per particolare tenuità, chiedendo al giudice di disporre l’archiviazione, ma con una diversa, più favorevole formula.
3. L’archiviazione per particolare tenuità del fatto nell’ambito dei reati edilizi
Un particolare ambito di applicazione dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. quale motivo di archiviazione è costituito dai reati edilizi.
Qualora vengano in rilievo abusi edilizi “minori”, sono, infatti, sempre di più i casi in cui la particolare tenuità del fatto viene invocata dal PM già in fase di indagine, costituendo la motivazione della richiesta di archiviazione.
Esaminando la giurisprudenza in materia, è possibile individuare i presupposti dalla stessa delineati ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità in questione.
Nello specifico, la Cassazione ha affermato che sono tre le verifiche da effettuare per consentire l’applicazione della particolare tenuità del fatto ai reati edilizi .
La prima verifica attiene a quanto previsto dall’art. 131 bis, comma 1, c.p., che circoscrive l’applicabilità dell’istituto ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena.
In secondo luogo, è necessario verificare se vi sia o meno “abitualità” del comportamento, circostanza che impedirebbe di applicare l’art. 131 bis c.p.
Il riferimento alla non abitualità del comportamento va posto in relazione con quanto indicato nel terzo comma dell’art. 131 bis c.p., che afferma: “Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad condotte plurime, abituali e reiterate.”
La terza verifica da effettuare attiene, infine, alla qualificazione dell’offesa come di particolare tenuità, qualificazione che deve essere condotta avendo riguardo all’entità del danno o del pericolo e alle modalità della condotta.
In merito alla esiguità del danno o del pericolo, la giurisprudenza dominante in materia indica che la stessa debba essere valutata sulla base di elementi oggettivamente apprezzabili e non anche attraverso una stima meramente soggettiva.
Per quanto riguarda le modalità della condotta, si è ritenuto invece evidente che il richiamo ai criteri di cui all’art. 133, comma 1 c. p., consenta di prendere in considerazione, ai fini del giudizio di irrilevanza, anche l’elemento soggettivo del reato.
La giurisprudenza ha inoltre sottolineato come anche gli altri parametri della condotta (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell’azione) debbano essere necessariamente apprezzati.
Con specifico riguardo al tema degli abusi edilizi ed alla qualificazione dell’offesa come di particolare tenuità, la Suprema Corte ha evidenziato come la consistenza dell’opera abusiva sia un elemento fondamentale da tenere in considerazione. La casistica evidenzia, infatti, l’archiviazione per particolare tenuità del fatto per abusi di modeste dimensioni, quali, ad esempio, strutture per ricovero di animali di affezione.
La consistenza dell’opera abusiva non è, tuttavia, l’unico aspetto da valutare ai fini dell’applicazione dell’art. 131 bis c.p. In particolare, la Cassazione ha ribadito che: “la consistenza dell’intervento abusivo costituisce solo uno dei parametri di valutazione. Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente (ad es. l’ordinanza di demolizione)” (Corte di Cassazione, 27.11.2015, n. 47039).
La giurisprudenza ha inoltre affermato come ulteriori elementi da tenere in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 131 bis c.p. sono la possibilità o meno di sanare l’intervento abusivo, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, le modalità di esecuzione dell'intervento e la circostanza che siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, relative alla fruizione delle aree demaniali) (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 6.02.2019, n. 5821, vedi anche Cass. Pen, sez.III, n. 35872/2016).
4. Le conseguenze del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto
Alla luce del fatto che la particolare tenuità del fatto può costituire motivo per l’adozione di un provvedimento di archiviazione, occorre ora interrogarsi sulle conseguenze che tale provvedimento può determinare in capo ai soggetti indagati.
Due profili di analisi vengono in particolare in rilievo. Il primo consiste nel chiarire se il decreto/ordinanza di archiviazione debba essere iscritto o meno nel casellario giudiziale, considerando il fatto che tale iscrizione costituisce, in ogni caso, “una macchia” nella sfera giuridica dell’indagato, che comporta delle conseguenze negative, in special modo nel caso vengano commessi successivi reati.
Il secondo profilo attiene all’indagine circa le conseguenze che l’adozione del provvedimento in questione può comportare in relazione ai procedimenti e/o processi amministrativi vertenti sui medesimi abusi edilizi.
4.1. La questione dell’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale
In relazione all’interrogativo circa la necessità di iscrizione nel casellario del provvedimento di archiviazione ex art. 131 bis c.p., si evidenzia come tale questione sia stata oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale, che esprimeva due orientamenti tra loro contrapposti.
Un primo filone giurisprudenziale riteneva che i provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto non potessero essere iscritti nel casellario giudiziale. Ciò veniva motivato sulla base del fatto che l'applicazione dell'art. 131-bis c.p., presuppone comunque l'accertamento della responsabilità dell'indagato per il fatto di reato contestato. Dovrebbe quindi dubitarsi della costituzionalità della disposizione relativa alla archiviazione qualora tale provvedimento effettivamente determini un effetto pregiudizievole per l’indagato, quale quello dell'iscrizione nel casellario, dal momento che all'interessato non viene attribuita la possibilità di rinunziare alla causa di non punibilità, né di impugnare il merito della decisione dinanzi ad una giurisdizione superiore (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 26 gennaio 2017, n. 30685).
Sempre nel senso di escludere che il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto fosse soggetto ad iscrizione, in quanto non definitivo e perché tale iscrizione si risolverebbe in una violazione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente tutelati dell'indagato, si sono espresse anche Cass. Pen. Sez. 3, n. 45601 del 27 giugno 2017; Sez. 3, n. 46379 del 26 giugno 2017; Sez. 3, n. 47832 del 3 novembre 2016, dep. 2017; Sez. 1, n. 53618 del 27 settembre 2017.
Secondo un diverso orientamento, l’iscrizione del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto nel casellario giudiziale sarebbe invece necessaria proprio al fine di garantire una corretta applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p. In particolare, si osserva che l’ambito di applicazione di questa specifica ipotesi di non punibilità è circoscritto, da un punto di vista soggettivo, ai casi di non abitualità della condotta. Pertanto, la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuità del fatto costituisce strumento essenziale per la stessa razionalità ed utilizzabilità dell'istituto. L’assenza di annotazione nel casellario determinerebbe, infatti, in modo del tutto incongruo, la possibilità di concessione di tale causa di non punibilità molte volte nei confronti della medesima persona (cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681).
Il descritto contrasto giurisprudenziale ha determinato un intervento delle Sezioni Unite, che si sono espresse chiarendo finalmente la questione.
La Suprema Corte ha affermato che l'orientamento per cui i provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto non debbano essere iscritti nel casellario giudiziale non possa essere condiviso. La Relazione ministeriale allo schema del D.Lgs. n. 28 del 2015, evidenzia, infatti, lo stretto collegamento esistente tra la memorizzazione di tutti i provvedimenti che hanno applicato il nuovo istituto e la corretta ed effettiva operatività della condizione della non abitualità del comportamento. Tale condizione presuppone che vengano tenuti in considerazione i pregressi reati della stessa indole commessi dal soggetto.
La Cassazione chiarisce, inoltre, come la novella del 2015 parli espressamente di iscrizione nel casellario dei “provvedimenti giudiziari” e non dei “provvedimenti giudiziari definitivi”, il che determinerebbe la necessità di iscrizione di tutti i provvedimenti concernenti la particolare tenuità del fatto, compresi quelli di archiviazione.
Quanto alle riserve sulla compatibilità costituzionale della necessità di iscrizione dei provvedimenti di archiviazione ex art. 131 bis c.p., le Sezioni Unite osservano come non vi sarebbe alcuna lesione dell'art. 24 Cost., in quanto la speciale disciplina prevista dall'art. 411 c.p.p., comma 1-bis, consente all'indagato di dispiegare le proprie difese dinanzi al giudice investito della richiesta di archiviazione per tenuità del fatto.
Devono inoltre escludersi i contrasti prospettati con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, poiché, nell’archiviazione ex art. 131 bis c.p., la valutazione pregiudiziale sulla sussistenza del fatto e sulla sua attribuibilità all'indagato, non costituisce un accertamento assimilabile ad una dichiarazione di colpevolezza nel senso inteso dalla CEDU, avvenendo in una fase anteriore al giudizio. Tale conclusione è peraltro confortata dal fatto che il provvedimento di archiviazione non produce gli effetti invece riservati dall'art. 651-bis c.p.p. alle dichiarazioni giudiziali dell'esimente.
Gli ermellini, sancita la doverosità dell’iscrizione del provvedimento di archiviazione ex art. 131 bis c.p., chiariscono, sotto un diverso ed ulteriore aspetto, come tale iscrizione in sé considerata non possa essere ritenuta un effettivo pregiudizio che l'indagato ha un reale interesse ad evitare, in quanto i provvedimenti che dichiarano la non punibilità ex art. 131 bis c.p. sono esclusi dalle certificazioni del casellario.
Il D.Lgs. n. 28 del 2015 ha, infatti, modificato alcune disposizioni del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale Europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti). In particolare, all'art. 5, comma 2, dopo la lett. d), è stata inserita la lett. d-bis), al fine di estendere la disciplina dell'eliminazione delle iscrizioni dal casellario giudiziale ai provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto trascorsi dieci anni dalla loro pronunzia.
Nell'art. 24, comma 1, e nell'art. 25, comma 1 del Testo Unico è stata aggiunta invece la lett. f-bis), prevedendo in entrambi i casi la non menzione dei suddetti provvedimenti giudiziari, rispettivamente, nel certificato generale ed in quello penale rilasciati a richiesta dell'interessato.
Le due disposizioni menzionate da ultime definiscono, peraltro, anche il contenuto dei certificati rilasciati, ai sensi dell'art. 25 bis e 28 del Testo Unico, a richiesta, rispettivamente, dei datori di lavoro e delle pubbliche amministrazioni, escludendo, anche in questi casi, la menzione dei provvedimenti che dichiarano la non punibilità ex art. 131 bis c.p..
In definitiva, l'iscrizione nel casellario dei provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto assolve esclusivamente a una funzione di memorizzazione dell’adozione di tali provvedimenti, destinata ad esplicare i suoi effetti soltanto all'interno del circuito giudiziario, fermo restando che non ne deve essere fatta menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell'interessato, del datore di lavoro e della Pubblica Amministrazione.
4.2. Gli effetti del provvedimento di archiviazione sui procedimenti e processi amministrativi
Un ulteriore aspetto di notevole rilevanza pratica è costituito dall’indagine circa gli effetti che il provvedimento di archiviazione ex art. 131 bis c.p. produce sui procedimenti e/o processi amministrativi vertenti sui medesimi abusi edilizi.
In altri termini, ci si chiede quali siano le conseguenze della pronuncia di un provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto qualora quest’ultimo intervenga (come spesso accade) prima della definizione dei procedimenti e dei processi amministrativi.
Il punto di partenza per tale indagine è certamente costituito dall’art. 651 bis c.p.p., che regola gli effetti della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno, così disponendo: “1. La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. 2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell'articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.”
L’art. 651 bis c.p.p. prevede, pertanto, che il proscioglimento per particolare tenuità del fatto abbia efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso nei giudizi civili o amministrativi di danno.
Come si evince dal tenore letterale della disposizione normativa, tali effetti sono, tuttavia, prodotti solo dalla sentenza penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento. Ne deriva che gli altri provvedimenti dichiarativi della non punibilità per particolare tenuità del fato assunti in fasi processuali differenti, come il provvedimento di archiviazione, non producono gli effetti di cui all’art. 651 bis c.p.p..
Pertanto, ad eccezione della sentenza resa al termine del giudizio abbreviato, i cui effetti sono regolati dal secondo comma dell’art. 651 bis c.p.p. e sono simili a quelli della sentenza dibattimentale, nei giudizi di danno non avranno rilievo le altre pronunce che concludono il procedimento penale in assenza di dibattimento.
Procediamo ora ad analizzare una seconda disposizione normativa rilevante ai fini della presente indagine, l’art. 654 c.p.p., che disciplina, da un punto di vista generale, l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi. Tale articolo afferma: “1. Nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.”.
Dalla lettura della norma emerge come anche questa seconda disposizione sia riferita solamente agli effetti prodotti dalle sentenze penali irrevocabili di condanna o di assoluzione emesse all’esito di un dibattimento . Pertanto, anche nel caso in cui si volesse ritenere la norma applicabile alle pronunce che dichiarano la non punibilità ex art. 131 bis c.p., facendo rientrare queste ultime nell’ambito dei provvedimenti “assolutori”, gli effetti di cui all’art. 654 c.p.p. non riguarderebbero certamente il provvedimento di archiviazione, ma esclusivamente le sentenze pronunciate all’esito di un dibattimento.
5. Conclusione
Alla luce degli aspetti sopra esaminati, può affermarsi che l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto possa costituire uno strumento di fondamentale importanza ai fini dell’alleggerimento del carico giudiziario.
Tale ultima esigenza può, in particolare, essere soddisfatta, nel caso in cui l’art. 131 bis c.p. costituisca il motivo dell’archiviazione, consentendo una definizione del procedimento nella sua prima fase, quella delle indagini.
L’istituto consente, pertanto, una significativa riduzione del dispendio di “energie processuali” in relazione a fatti che, in quanto bagatellari, sono, in concreto, non meritevoli del ricorso alla pena.
Nell’ambito dei reati edilizi, emerge con evidenza la possibilità di applicare l’istituto de quo in tutti quei casi di “abusi minori” in cui l’offesa si configuri come particolarmente tenue, avendo riguardo alle modalità della condotta ed all’esiguità del danno.
L’art. 131 bis c.p. consente, pertanto, una deflazione del sistema giudiziario nel pieno rispetto e bilanciamento dei principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art.27 Cost.).
Si evidenzia, inoltre, come la possibilità per il PM di richiedere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, se correttamente applicata, costituisca uno strumento di alleggerimento del sistema processuale penale certamente meno “ipocrita” dell’istituto della prescrizione, nonché maggiormente efficiente, consentendo l’arresto del procedimento sin dalla sua prima fase. Infatti, mentre la prescrizione opera in relazione a procedimenti che pendono per un lungo periodo di tempo, l’art. 131 bis c.p., in particolare se invocato quale motivo di archiviazione, comporta l’arresto del procedimento dalla sua fase iniziale, evitando un inutile dispendio di energie giudiziarie ed eliminando le ovvie conseguenze negative (anche in termini psicologici) che la pendenza di un processo determina in capo all’imputato.
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